Il fiume aveva la consistenza d’una pastosa lingua d’argento, sgargiante e fluida, resa ultrabrillante dalle schegge di luce viva che il sole, a piombo come una pendola dorata, spandeva sotto di sé. Le rocce incastonate nel greto fangoso affioravano disordinate a interrompere la corrente, o a deviarne il corso. Di tanto in tanto si potevano intravvedere arbusti e foglie scivolare sulla superficie dell’acqua, meno altri oggetti inconsueti, come palloni di tela sdrucita o bottigliette, che ostruiti dai massi sostavano più a nord, sotto la passerella in legno, evitando così d’inquinare la lunata di raccordo tra l’alveo e il lago.
Il vecchio Holt giaceva sdraiato di traverso nello scafo, il cappello da baseball calato sugli occhi, un piede nudo penzolante oltre la fiancata destra e una gomma di tabacco ad allappargli le gengive. Masticava piano, lasciandosi trasportare dalla corrente. Aveva i capelli lunghi pieni di polvere e la pelle arrossata dal sole. Quelli che passavano lungo la sponda del fiume e ne vedevano il profilo in mezzo alle acque, lo indicavano dalla riva e dicevano «Eccolo lì, il vecchio Holt», prima di andarsene sorridendo. Da tempo nessuno ricordava più il suo vero nome. Aveva solo diciassette anni, li aveva vissuti sul filo, tra le dolci correnti dei fiumi e dei laghi e quelle salate e aspre del consorzio degli uomini. Una creatura a metà tra un anfibio e un bipede, capace di camminare sulle acque senza mai attraccare o di passare mesi sulla terraferma senza neanche lavarsi un’unghia. Era fatto così, il vecchio Holt: viveva come capitava, seguendo il flusso, adattandosi alle circostanze, spendendosi a cercare qualcosa che non trovava mai, qualcosa che sembrava sfuggirgli non appena avesse avuto l’illusione di afferrarla.
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