Testo: Andrea Ventola – Illustrazioni: Elena Ventola-Turienzo
C’è un cancello in ferro battuto, incastrato fra due colonne in pietra, e accanto un pino che gli fa ombra. Sta in via Motta e guarda un complesso residenziale che sa di nuovo e di pulito. Gli appartamenti bianchi e moderni dominano la conca, col lago e le colline, il nostro piccolo paradiso naturale, che di notte s’accende e illumina quella distesa plumbea che è il Ceresio, e con l’aiuto della luna sale il groppo in gola a vederla, la città, quella scintilla di pace fra le ombre, dopo tutto il rumore del giorno.
Quel cancello è parte di un tempo remoto, di un quartiere che oggi non c’è più e di nome faceva Sassello. Oggi è solo una strada che poggia su via Nassa e ti porta su verso il poggio con la cattedrale e la stazione. E il turista che passa di lì mica lo sa che quella targa è ben più di una salita. Forse non lo sappiamo più bene nemmeno noi cos’era quel nome, cos’erano quelle facce e quei colori e la vita che vi si respirava, tra una bestemmia e un attacco di tisi, tra una serenata e un inseguimento fra i vicoli, e a vedere oggi il quartiere sale una nostalgia da far credere che è la memoria il vero inferno, non la morte o l’oblio.
Nel 1939 era scoppiato un gran chiasso anche qui da noi, con fior fiori di politici e amministratori che diedero seguito a una mozione presentata sei anni prima, secondo la quale il Sassello era un covo di briganti e di prostitute, un focolaio d’infezioni mica da ridere, tra vaiolo e tubercolosi, un nido di malaffare insomma, in cui la moralità veniva calpestata dai tacchi delle ballerine e innaffiata dalle bottiglie di vino. L’azzardo e le risse e i furti erano all’ordine del giorno, e quei panni appesi e quelle facce peste altro non erano che lo specchio della povertà, una povertà antigienica, offensiva della virtù borghese, che a un certo punto voleva sbarazzarsi di tutta quella marmaglia sudicia e zoticona.
Risanare. Che bel verbo. Rimettere a posto le cose, sì. Sbarazzarsi del tumore, che in quel caso era il miserabile con le scarpe sfondate e le mani bussate di calli. Così arrivarono i picconi, come se a sfondare i vecchi coppi, a demolire le balconate e gli archi, si restaurasse l’animo dei luganesi. Lo sventramento del Sassello rispondeva alla domanda utilitarista: ciò che non serve, ciò che è brutto e inutile, lo demoliamo. I turisti vogliono altro, vogliono negozi di lusso, e bar e ristoranti e pasticcerie in linea con il mercato, e aria pulita, non mendicanti e pescatori, non postriboli e tuguri, e insomma, detto fatto, la Città Vecchia scompare. Mica solo il Sassello. La politica imprenditoriale di inizio Novecento ha fatto man bassa di chiese e conventi, di palazzi e castelli, pur di restituire lustro alla città, pur di abbigliarla con stile.
Il Sassello aveva la sfortuna di strizzare l’occhio ai quartieri-bene, alle istituzioni più importanti, perché lì, a due passi dal rione povero, c’erano il Palazzo Civico e la chiesa di San Rocco, il pretorio nella piazzetta Maraini, il palazzo dei landfogti e il vecchio Asilo Ciani, l’ex-vescovado diocesano e il palazzo delle Dogane. Il quartiere lo potevi raggiungere da via Pessina, da via Nassa, passando dalla sartoria Fumagalli fino al Portegàsc, dove il Bisbin ti versava il rosso della casa, o dal Vicolo Tassino che sbucava sulla tipografia Rezzovaglio. Oppure da piazza Cioccaro, che ti conduceva, lungo un passaggio stretto e tortuoso, nello stomaco del quartiere, dove dalle catapecchie maleodoranti e dagli oscuri laboratori sentivi urla di rabbia, risate sgangherate, qualche pianto, quel genere di suoni che t’indica la vita.
Un bel groviglio di case e un labirinto di canali e di viuzze, coi miasmi dei rifiuti e i gabinetti sui ballatoi, bambini moccolosi e scalzi a correr dietro la ruota d’una bicicletta, e poi le botteghe, coi falegnami e gli arrotini, le sarte e i pescivendoli, e un viavai di uomini e di donne a caccia di un centesimo, di un posto dove mangiare o dormire, di una giornata di sole. Ché il sole, al Sassello, non ci entrava mai. Aveva meglio da fare, che riscaldare le terga dei poveracci. Non batteva, ad esempio, la testa del sergente Santino Lironi, che col suo baffo a manubrio e lo schioppo alla cinta interveniva a sedare i quotidiani litigi domestici. Quelli delle famiglie di fattorini che servivano treni e battelli, o dei barcaioli, dei venditori ambulanti, degli allevatori e dei tosatori di barboncini, dei manovali che si spaccavano la schiena in una fabbrica di cioccolato di nome Compagnie Suisse. Non brillava nemmeno sui cappelli dei Pustinzi e dei Ciotta, sul collo dei Carnauncia e dei Mamai, che con quella torma di zii e cugini, di figli e di nonni, di parenti acquisiti e naturali, il vero sole del Sassello erano le mani che si tendevano le famiglie per sfangare la giornata e avere il paiolo con la polenta calda sulla stufa. Quando una lavandaia s’ammalava l’altra accorreva a curarle i figli e a farle il bucato, mentre gli uomini facevano collette e squadre-lavoro per sostenere gli infermi e i moribondi e gli inoperati.
D’inverno, poi, faceva un freddo da gelare le chiappe al diavolo, e allora si scaldavano le lenzuola o s’infagottava un fiasco d’acqua bollente in un asciugamano, perché la legna non tutti ce l’avevano, e allora diventava importante, in autunno, scuotere gli ippocastani o raccogliere i trucioli dai falegnami o i carboni persi dai carri, e buttare tutto nel camino e farne un falò da riscaldare i cuori e i piedi.
Per la pancia, invece, siccome di carne ce n’era poca, si andava a caccia di gatti. Erano il Paja Lunga e il guercio, quel Mosè orbato dal vaiolo, che ai piedi delle scalinate e fra gli androni delle case piazzavano trappole e gabbie, oppure entravano in un’osteria e con la scusa d’un bicchiere di vino e un po’ d’erba gatta in tasca, si facevano seguire nel vicolo dal micio del padrone.
Fra i sassellesi c’erano anche grandi artisti, come gli Schmid, i maghi del tufo, che hanno abbellito edifici e monumenti cittadini, come la fontana in piazza Manzoni, o il Torquato Pustinzi, che vendeva mele candite e zucchero filato in zona Maghetti, o il Giuvan Limunta, che con le sue balle pittoresche intratteneva la gente del quartiere, o ul Pàcech, che gestiva il lupanare del Sassello, o il Gnazzi, che subiva gli scherzi del bigliettaro Foletti quando s’addormentava lungo il tratto Funicolare-Stazione, o le donne del rione, timide e pudiche alcune, agguerrite e decise altre, come la Kilin, divenuta leggenda per uno schiaffo dato sul lungolago al re Costantino di Grecia…
Questo era il popolino, che al Cantinone o alla Bettola del Michele, la sera, prendeva un boccalino e una chitarra, e nonostante le fatiche, le tribolazioni, i fallimenti, la povertà, si lasciava andare all’allegria e alla spensieratezza.
Il quartiere lavorava duro e grazie ai suoi sforzi la città prosperava. E a guardare da quel cancello, oggi, li vedi il benessere, i soldi e la sicurezza di chi, tutto questo, lo ha costruito ma non lo ha mai avuto.
Fonte: «Sassello, il quartiere frainteso», a cura di Carlo Agliati, Edizioni del Cantonetto, Lugano 2016.