In tempi normali, queste sarebbero settimane di travestimenti e coriandoli, cortei e guggen. I carnevali 2021 e 2022 sono invece purtroppo chiusi per Covid, ma desideriamo comunque marcare presenza e diffondere un po’ del tipico spirito scanzonato parlando delle tradizioni nei paesi, soprattutto legate ai nomi degli appuntamenti festosi. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi né di dire assolute verità. Spesso sono notizie che arrivano da lontano, da leggende, ricordi, aneddoti; in qualche caso da libri e documenti ufficiali.
Per un’introduzione al tema ci siamo rivolti a Giovanna Ceccarelli, autrice della voce «carnevaa» nel Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. Come vengono scelti i nomi? «Generalmente derivano dai soprannomi degli abitanti del paese in questione, che a loro volta spesso si ispirano ad animali (asan, bécch, cavri, gatt, orócch, porscéi), difetti fisici (gòss), oppure si basano su attività collegate al mangiare (maiabött, maiaratt, maiamundinn, tetaquacc), professioni o attività talora sanzionabili (pessatt, ranatt, sfrusín), difetti o qualità morali e/o sovrannaturali (matt, narigiatt, sbefard, striún), o ancora caratteristiche del luogo (pensiamo ai nebiatt di Chiasso o ai masarée di Aranno)».
Vita reale e vita carnascialesca a braccetto, nella misura in cui in alcune località la denominazione del re si ispira ai soprannomi degli abitanti. «Esattamente. Gli esempi a riguardo sono numerosi. A Lugano Re Sbroja regna sugli sbróia, la Val Colla obbedisce a Re Colèta, Comano a Re Sgarbelée. In altri casi si ricorre invece a scelte del tutto indipendenti. Si tratta di espressioni ironiche e volutamente provocatorie, prese in prestito dal mondo letterario o scelte in base a determinate costumanze o vicende della comunità. Un esempio? Il re del carnevale di Faido, Tecoppa, deve il suo nome a un noto personaggio della commedia milanese, vile e disprezzato da tutti, sempre pronto a farsi da parte; nella scelta avrà contribuito l’influsso dell’emigrazione leventinese, in particolare da Faido, verso Milano».
Nel Vocabolario dei dialetti, Ceccarelli parla diffusamente dei reali. «Il tema dell’inversione gerarchica, della detronizzazione dei potenti in favore degli umili, della destituzione dei pubblici amministratori da parte di un burlesco e inaffidabile re della follia – presente in cerimoniali carnevaleschi medievali come il festum stultorum, che si concludeva con l’elezione di un abbas stultorum – riemerge, in forma attenuata, anche alle nostre latitudini». Quasi ogni carnevale ha il suo re, di frequente accompagnato dalla gentil consorte. Il primo giorno dei festeggiamenti si procede all’incoronazione, con la consegna simbolica da parte del sindaco delle chiavi – e dunque del potere – della città o del comune. Segue il discorso ai sudditi, spesso e volentieri nel dialetto locale. «Il re si concede massima libertà di critica, manifestando lo scontento e l’insofferenza del popolo», prosegue Giovanna Ceccarelli.
In una vecchia cronaca leggiamo che «el Rè Colèta el tirava in gir un pò chi che éva dént in do municipi, chi che magari i éva facc na quai marachèla opür i éva facc na quai baldoriada ara sira prima che i è rivá a cá ciócch, e pö magari anca qui di esercizzi püblich» (il Re Colèta prendeva in giro un po’ i municipali, quelli che magari avevano fatto baldoria la sera prima ed erano arrivati a casa ubriachi, e poi magari anche gli esercenti).
Matt, slavinée, pechèsc e asen
Iniziamo il nostro viaggio tra paesi, carnevali e nomi da Alto Malcantone, dove ciascuno dei cinque ex Comuni ha evidentemente una storia a sé. Le passiamo in rassegna con il sindaco Giovanni Berardi. «Ad Arosio il Carnavaa di Matt deriva dal fatto che gli abitanti di quel villaggio sono i matt da Rós. Perché? Francamente non saprei...».
A Mugena si festeggia invece il Carnavaa da Re Slavina: «Prende spunto dai slavinée da Mügena, così chiamati perché il pendio dietro il paese, attraversato da due riali, era parecchio franoso dando luogo a straripamenti e inondazioni».
Proseguiamo a Vezio, con il Carnavaa Pechèsc. «Mi è stato riferito che “i pechèsc da Vésc” è un detto probabilmente legato a una sorta di pastrano o, meglio, di cappa con cui viaggiavano gli artigiani di Vezio in giro per l’Europa».
A Fescoggia, maschere e coriandoli non ci sono più, «ma si presume fosse il Carnavaa di Bordon, rape rosse coltivate per il lungo sostentamento invernale».
Infine, a Breno, sul trono troviamo Re e Regina Asen. «Asen da Bren è forse in contrapposizione ai Müi da Mijoia, i muli di Miglieglia. Due comunità fra le quali in passato c’è stata grande rivalità: probabilmente, in questo caso, il soprannome a queste comunità è stato affibbiato dall’esterno. A Miglieglia c’è la statua di un mulo che scalcia verso Breno, a Breno una fontana con l’asinello».
A Porza, lo scorso anno si è festeggiata la 60.ma edizione di Ul Saltasciüc, nome per il quale Fausto Gianinazzi ha una spiegazione: «All’inizio del secolo scorso i porzesi tagliavano le piante, lasciando la parte del tronco ancora interrata. Pertanto i boschi si prestavano per il gioco dei ragazzi, che saltavano i “sciüc”».
Dal libro di Tarcisio Casari intitolato «Ieri e oggi - Cadempino una comunità che vive», risaliamo invece alle origini del termine «zocurin». «Riporta all’attività dei costruttori delle tipiche calzature molto usate tempi addietro. Significa che questo tipo di artigianato era diffuso in paese».
È invece un piccolo roditore, il moscardino, particolarmente presente nella zona, a dare il nome al carnevale di Melano – regno di Re Nisciölin – in base al meccanismo di cui si diceva prima: gli abitanti sono detti nisciölín e l’animale è pure raffigurato sullo stemma del Comune.
Buascin, fügasciatt e maghitt
A Vezia si festeggia il Carnevale Buascín, letteralmente sterco di vacca. Retaggio del passato: un tempo in paese c’erano quasi più mucche che persone.
Pare che nell’Ottocento a Vernate fossero invece all’ordine del giorno aspre discussioni e litigi su questioni politiche e in ambito fondiario. Tanto che un giorno il sindaco, rivolgendosi alla «sua» gente, avrebbe detto: «A ghi propri la testa vöida come un’ola», termine, quest’ultimo, riferito alla olla, vaso e pentola in terracotta. Nel 1947, in occasione del primo carnevale, Sua Maestà Bruno Soldati scelse proprio il nome di Re Ola, in voga ancora oggi.
A Grancia i bagordi in maschera non vengono più organizzati da una ventina d’anni, sostituiti dalla Festa di San Giuseppe. Se ne occupa il Comitato benefico Fügasciatt di Grancia e Barbengo, nato nel 1979 dalla fusione dei gruppi promotori dei carnevali di Grancia (vall di Fügasc) e Figino (pian di Sciatt). Il comitato è guidato da Riccardo Ballinari, che ha raccolto il testimone da Cesare «Cicio» Ramelli, ora presidente onorario dopo oltre quant’anni alla testa del sodalizio.
«Il carnevale dei Maghi di Gravesano ha avuto luogo fino alla metà degli anni ottanta ed è poi stato abbandonato – ci spiega il segretario comunale, Graziano Cremona – La denominazione derivava dal nomignolo affibbiato agli abitanti del paese, “i maghitt”. Lo scorso anno un gruppo, formato in gran parte da genitori dei bambini dell’asilo, ha ripreso i festeggiamenti, rivolti principalmente ai più piccoli, chiamandoli “Carnevaa di Maghitt”. Il successo ottenuto aveva motivato questo gruppo a riproporlo, ma purtroppo la pandemia ha cancellato l’edizione 2021». Perché maghitt? Lo spiega Maria Cavallini-Comisetti in «Folcore ticinese. Nomignoli dei paesi del distretto di Lugano» (1967). «Forse bisogna risalire a quel periodo in cui il popolino credeva fermamente agli spiriti folletti, ai maghi, alle streghe che danzavano attorno a immensi roghi nei boschi e facevano i loro sortilegi o barlotti». Secondo l’autrice è comunque più plausibile che a Gravesano «sia rimasto il ricordo del passaggio dell’imperatore Federico Barbarossa, mago della strategia, il cui nome fa pensare a un tremendo mago barbuto».
Lucifero e il pettirosso
Si chiama semplicemente Carnevale Massagnese l’appuntamento che va in scena nel Comune alle porte di Lugano. «Ogni edizione ha un tema diverso, attorno al quale si scherza e si invitano i partecipanti, soprattutto i bambini, a interpretarlo in modo ironico e festoso – ci spiega Damiano Ferrari – A fine giornata si procede alla premiazione delle migliori mascherine». Fino a qualche lustro fa, prosegue Ferrari, a Massagno regnavano Roccolino e la consorte Roccolina. Il nome prende spunto dal roccolo situato al parco Tre Pini, dove veniva acceso un falò e bruciato un pupazzo come gesto scaramantico e propiziatorio per una positiva annata.
Di nuovo Maria Cavallini-Comisetti, nel suo «Folcore ticinese. Nomignoli dei paesi del distretto di Lugano», fornisce un’interpretazione di Barlicata e Picitt a Muzzano. «Ai tempi fantasiosi popolati di maghi, streghe e fantasmi, a Muzzano dev’essere passato anche Belzebù per lasciarvi il ricordo del suo nome “Barlicata” ossia “Berlicche” (scherzo del diavolo). Cosa ha fatto Lucifero a Muzzano? Pare abbia fatto strage di donzelle, gettandole poi nel laghetto sottostante, dopo di che sono spuntate come per miracolo graziose ninfee». E Picitt? «Viene da pettirosso, in dialetto appunto picitt. Nella regione non mancano questi uccelli, che devono il suo nome a una leggenda. Quando Gesù era sulla croce, la corona di spine gli si era conficcata nel capo, che grondava sangue. Un uccelletto che stava nell’orto dei Getsemani lo vide ed ebbe pietà. Si avvicinò per tentare, con il suo becco, di togliere le spine che premevano la fronte del Salvatore. Nel suo tentativo, l’uccello ebbe il suo petto insanguinato. Da allora venne chiamato pettirosso».
Sigillo sulle future nozze
Gli abitanti di Sessa, e i festeggiamenti carnascialeschi, sono chiamati mongiavacch. Non si conosce con precisione il motivo, ma andando a intuito si può ritenere che la campagna del villaggio si prestava all’allevamento di mucche e un tempo tutte le famiglie ne possedevano. Mattino e sera bisognava mungerle: ecco il nome mongiavacch. A riguardo dei bagordi in questo villaggio del Malcantone, sono meravigliosi alcuni passaggi del libro «Il profilo storico di Sessa» di Francesco Bertoliatti (edizioni Arktos). Il carnevale era un appuntamento atteso e sentito: «Le donne traevano fuori dalle cassepanche i più bei vestiti di seta, i bindelli variopinti, i “panetti” (fazzolettoni da collo) conservati nella canfora». Un evento in cui potevano nascere storie d’amore. «Era l’unico divertimento durante il quale le simpatie si concretizzavano e si sigillavano le future nozze e le lunghe separazioni. Infatti a primavera gli uomini emigravano in massa; le donne vivevano in un’economia patriarcale severa, sotto lo scettro geloso dei nonni e dei suoceri». Momenti spensierati scanditi soprattutto dai balli. «Il carnevale era dunque una distensione, gl’istinti salivano a galla, si palesava il bisogno di amare nel diritto alla vita. Poi, la sera del martedì grasso, l’annuncio: “Divertitevi, giovani, tra qualche ora comincerà la macerazione della Quaresima”».
Animali protagonisti a Vico Morcote, i cui abitanti sono chiamati cavri. Oltre a figurare sul gonfalone comunale, le capre hanno fornito lo spunto per dare il nome ai festeggiamenti. «Il Carnevaa di Cavri – segnala il segretario comunale, Werther Monti – risale a circa settant’anni fa. La prima risottata con festa danzante tra compaesani è stata organizzata da Olga Delucchi con alcuni amici. La signora Olga, parlando tedesco, aveva preso contatto con una famiglia svizzero tedesca proprietaria di una casa dotata di un ampio locale, perfetto per ritrovarsi in allegria». Per alcuni anni, alla riffa del Carnevaa di Cavri fu addirittura messo in palio come premio un caprone vivo!
È morto ur Giovanín
Chiudiamo questa prima rassegna con Astano. L’ex municipale Martino Molinari – ci racconta che «in passato veniva preparato un fantoccio, chiamato Giovanín, che simboleggiava il carnevale. Perché Giovanín? Qui non se lo ricorda nessuno, il motivo affonda le radici nella notte dei tempi». Dalla sua biblioteca, Martino estrae il libro «La cronistoria di Astano» (1927) di Santo Trezzini, dove il racconto è preciso e suggestivo.
«I giorni di carnevale si festeggiano con pompa solenne. Non si rinunciano alle tradizionali pazzie, ai balli mascherati, al giro delle musiche alla questua dei salami e alla solita scorpacciata ed alle veglie prolungate. Quando però il carnevale sta per andarsene, e precisamente a mezzanotte del martedì, entra in sala una fanfara di quattro o cinque musicanti, suonando la solita e vecchia marcia funebre, annunziante i funerali del Giovanín che vien portato, adagiato e legato su una scala a pioli, da quattro uomini. Il Giovanin è un uomo di paglia, modestamente vestito dal color rosso carminio, personificante Bacco in allegria. Quando la banda cessa, uno della compagnia improvvisa l’elogio funebre. La sua tomba provvisoria è una nicchia della sala. Al mercoledì, giorno delle Ceneri, nel pomeriggio gli si dà solenne sepoltura. Si forma il corteo; i ragazzi in testa con vessilli abbrunati; segue il feretro; poi i parenti (i ballerini simulando piagnistei perché troppo presto è terminata l’allegria), la musica ed il popolo. Si fa il giro del paese, poi via alla volta del confine italiano. Quivi giunti, l’allegra compagnia si ferma; al Giovanín vengono rivolte le ultime parole d’addio e poi vien messo sul rogo. Alcune volte viene affogato nel piccolo stagno, e nell’ante guerra, veniva spedito a mezzo d’un filo a sbalzo dal varco del Monte Clivio a Dumenza, ove era atteso con ansia da quei giovinotti che festeggiavano il Carnevale Vecchio del Rito Ambrosiano».
Un rito – quello legato al Giovanín – in auge fino agli anni cinquanta del secolo scorso. E oggi come si festeggia? Martino Molinari è laconico: «Ad Astano, del rinomato carnevale non restano che il risotto e la tombola».