di Marco Martucci
Era un film di fantascienza, ispirato a un libro di Harry Harrison, «Make Room! Make Room!» del 1966. La fantascienza, quella fatta bene (come ogni altra cosa, del resto) è qualcosa di serio e, quando tratta del futuro, ci può anche mettere in guardia.
Qualcuno ha definito la science-fiction come il «test di Rorschach» dell’umanità, quei ben noti test psicologici con le macchie in cui ognuno ci vede qualcosa di diverso. Anche in «Soylent Green» si possono intravvedere tante cose, ma una è chiara: un futuro nero per l’umanità.
Siamo nel 2022 (!), in una Terra in cui l’inquinamento ha superato ogni livello pensabile, non ci sono più stagioni, è sempre estate con temperature sui 32 gradi, la terra è rinsecchita, i deserti avanzano. New York è una megalopoli allo sfascio, con 40 milioni di abitanti. Il cibo, in tutto il pianeta, scarseggia, il suolo non produce quasi più nulla. A parte una ristretta cerchia di privilegiati, che possono ancora nutrirsi di carne di manzo e verdura fresca, gli altri ricevono dallo Stato delle gallette di proteine e carboidrati, prive di sapore e nauseanti, fatte – così dicono i produttori – con il plancton degli oceani. Sono le gallette di soylent.
Un tipo più sveglio degli altri scopre che il plancton è sparito pure lui per l’inquinamento. Allora, si chiede, con cosa vengono fabbricate le gallette? Seguendo una traccia, arriva in uno degli istituti dove si pratica una specie di suicidio assistito; in realtà, chi supera una certa età viene «invitato» a lasciare questo mondo e, in una toccante cerimonia con visioni registrate di stupendi scenari e musiche di circostanza, uno si addormenta per sempre. Il corpo viene avviato a un centro di decomposizione. Ma, in realtà – e così finisce il film – si scopre che i corpi vanno in una fabbrica per essere trasformati in cibo, il soylent, appunto. Nel libro di Harrison, la maggior parte dei soylent conteneva soia e lenticchie. Decisamente macabra dunque la versione del film. Finiremo davvero così? Speriamo di no, ma è una provocazione, un invito a pensare al futuro.
Una Terra bella e fragile
Il film uscì a un anno di distanza dalla pubblicazione di un libro che fece molto parlare, «I limiti dello sviluppo», del 1972. Era un rapporto sui dilemmi dell’umanità, realizzato da un gruppo di ricercatori del MIT su mandato del Club di Roma, fondato quattro anni prima da Aurelio Peccei. Era, «I limiti dello sviluppo», il primo studio scientifico di larga diffusione che documentava in modo globale i problemi ambientali e del futuro della Terra e dell’umanità.
In questi tempi di cambiamento climatico e di pandemia, è interessante notare come la questione ambientale, e non solo, fosse già presente nei pensieri di quasi cinquant’anni or sono. Nulla di nuovo sotto il Sole? Non del tutto. La novità fu, ed è ancora un crescendo, la presa di coscienza a livello planetario. Grazie anche all’astronautica che, con le sue immagini della Terra vista da «fuori», dallo spazio, ci ha fatto capire quanto il nostro pianeta sia bello e fragile. Scriveva Peccei, nel 1972: «Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l’intellighenzia artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni Paese a restare in ritardo sui tempi…». E ancora: «Ricerche più avanzate, autocritiche genuine, meditazioni più penetranti saranno necessarie… Se avremo la forza morale per intraprenderle, potremo forse gettare le basi di una nuova grande avventura dell’uomo, la prima a dimensioni planetarie, quali le sue conoscenze e i suoi mezzi tecnico-scientifici oggidì non solo permettono, ma ormai impongono». Parole di quasi mezzo secolo fa, più che mai attuali.
Nella foto: la Terra vista dagli astronauti di Apollo 17, ultima (per ora) missione con equipaggio umano verso la Luna, contribuì allo sviluppo di una nuova coscienza planetaria.