Per una ragione che non volli comprendere, o vedere, nonno Burt mi portò là dove tutto era iniziato, al Liceo di Lugano, dove un lontano mattino di tanti anni prima aveva dato vita al primo dei numerosi personaggi che nel corso degli anni avrebbero popolato i miei ricordi di vite vissute al limite, tutte diversissime fra loro ma accomunate dalla bellezza e dall’eroismo delle gesta che le avrebbero consacrate alla storia. La vicenda emblematica di Carlo Cattaneo aveva infatti tracciato il solco entro il quale si sarebbero susseguiti gli eroi che avevano amato, ricambiati, la mia città, e che entro i suoi confini avevano scritto un pezzo importante del nostro futuro.
Allora nonno Burt mi sembrava invincibile, forte, pronto allo scherzo, arguto e vivace, come lo avevo sempre visto nel corso degli anni. Le sue storie, ricche di particolari, prendevano vita davanti ai miei occhi, e quegli eroi sembravano danzare, scortati dalle sue parole, nel cielo della mia infanzia. Quando mi riportò davanti al cancello liceale, invece, lo vidi stanco, lento nei movimenti, affaticato nelle membra come nella voce. Era invecchiato, ma non aveva ancora smesso di lottare. E infatti, come un’eco che si spandeva dal fondo della sua anima limpida, emerse tutto d’un tratto il fragore delle onde, il bianco vivo della schiuma, le urla dei marinai e il vento freddo dell’oceano Atlantico.
Un uomo anziano, i muscoli indolenziti dalle mille battaglie, la pelle segnata dalla punta delle frecce e dalla lama delle spade, le rughe a segnargli la fronte incavata e pensierosa, si erge ritto al timone con le ultime forze residue, davanti ai suoi compagni. Anche loro sono vecchi, segnati dal tempo e dalla fatica, ma lo hanno seguito fino all’ultimo baluardo, le Colonne d’Ercole, l’avamposto terminale del mondo conosciuto, dal quale, una volta oltrepassato, non è più possibile tornare indietro. Il capitano li guarda negli occhi, uno ad uno, prima di pronunciare le parole leggendarie che li spronerà a seguirlo. «Fratelli, che attraverso centomila pericoli siete giunti al confine occidentale del mondo, a questo così breve tempo di veglia della nostra vita che ormai ci resta, non vogliate negare l’esperienza del mondo disabitato che sta alle spalle del sole. Considerate la vostra origine: non foste creati per vivere come bestie, ma per seguire virtù e conoscenza».
A queste parole vidi brillare gli occhi celesti di nonno Burt, e sovrapporsi a lui l’immagine di Ulisse, che nel Canto XXVI della Divina commedia esalta il suo equipaggio, convincendolo a seguirlo in quell’ultima, fatale avventura. «Ulisse poteva starsene tranquillo a Itaca, insieme a Penelope e al figlio Telemaco, godendosi gli onori e gli agi di una vita da re. Ma la sua indole inquieta e curiosa glielo impedisce, e così si avvia per l’ultima avventura, alla scoperta di quella parte di mondo che gli antichi credevano fosse preclusa all’uomo e che Ulisse, invece, osa esplorare».
Quando chiesi a nonno Burt cos’aveva a che fare Ulisse con il Liceo di Lugano, lui mi indicò all’entrata il busto di Dante e mi spiegò che nel dicembre del ’42 un importante poeta ligure di nome Francesco Pastonchi ammaliò il pubblico in sala recitandone il canto XXVI insieme alla Morte di Icaro di D’Annunzio. «Pastonchi era un uomo tutto d’un pezzo, di bell’aspetto, alto e aitante, con i capelli impomatati e un’eleganza notevole, che risaltava agli occhi del pubblico non appena entrava in scena. Quel giorno il poeta salì le scale che portavano all’aula magna con lo stesso passo cadenzato che usava lungo i gradini di via Solferino a Milano, nella sede del Corriere della Sera, il quotidiano con cui Pastonchi collaborava da tempo. Il passo lento, a controllare il movimento ondeggiante del paltò color perla, le gambe fasciate dai pantaloni ancora caldi del ferro, e nella sala il passaparola degli astanti – “C’è Pastonchi... Arriva Pastonchi” – contribuivano a creare un’atmosfera di riverenza assoluta nei suoi confronti».
Quando si presentava al pubblico, mi raccontò nonno Burt, di Pastonchi colpiva soprattutto l’aspetto fisico, risaltato dall’abbigliamento ricercato. «Ma i capelli impeccabili, le cravatte sgargianti, le scarpe lucide e le larghe sciarpe di seta non devono trarre in inganno. Pastonchi amava la moda, certo, ma non doveva distogliere l’attenzione dalla Poesia con la P maiuscola. Ecco allora che quando, a poco a poco, dopo lo stupore iniziale, in sala calava il silenzio, prendeva immediatamente corpo la voce suadente e vibrante del dicitore, che ipnotizzava i presenti con i versi immortali del Fiorentino...».
Ai ragazzi presenti in sala – poiché, precisò nonno Burt, all’epoca la poesia attirava durante le letture pubbliche un numero di ospiti assai giovani, paragonabile a quello che oggi troviamo solo nei cinema o ai concerti – Pastonchi si rivolse infine con veemenza, fondendo la fine di Icaro con quella di Ulisse, entrambi morti per un ideale altissimo, lo stesso che in qualche modo deve accompagnare l’essere umano nel corso della sua esistenza, vale a dire la ricerca della Verità e dello scopo ultimo della vita terrena, e mentre gli occhi e la voce del poeta illuminavano la sala, ecco partire – aggiunse nonno Burt – il timido applauso d’un anziano in ultima fila, commosso da quell’esortazione, da quell’inno alla curiosità e al coraggio, e fu proprio in quell’istante che Pastonchi bloccò con un gesto inequivocabile della mano l’intervento dell’uomo, come fosse quello d’un marinaio irruento, chiudendo gli occhi e lasciando che nell’aria carica di attesa spandesse soltanto il silenzio e l’eco interiore delle parole di Dante, non gli applausi o i fischi, ma solo la potenza del verso.
A quell’immagine nonno Burt si commosse. Io non sono certo di aver capito cosa volesse dirmi, ma so che era qualcosa di importante e forse di realmente indescrivibile.
«Pastonchi – mi disse infine – non era solo un critico letterario o un illustre professore di letteratura all’università di Torino, o un oratore affascinante e coltissimo che teneva letture pubbliche in tutta Italia.... Pastonchi era soprattutto un poeta, e come tale si sentiva in dovere di servire la poesia ogni volta che ne aveva occasione. Ogni altra attività la considerava inferiore, o semplicemente collaterale a quella che per lui non era una professione, ma una missione vera, la missione di divulgare, nei cuori e nelle coscienze dei molti, la bellezza e il sapere dell’arte più antica».
Quando nonno Burt finì il suo racconto, lo vidi ergersi al cospetto del busto dantesco, come se il fatto di ricordare la scena in cui Pastonchi, Dante e D’Annunzio si fossero fusi in una voce sola, bastasse a ridargli linfa vitale, a ricaricarlo per un’altra vita, a restituirgli quella forza che pareva aver perduto e che invece, ora, sembrava essergli tornata.
Come se lo spirito di Ulisse, affamato di conoscenza, assetato di esperienza, gli fosse penetrato in corpo, vincendone la vecchiezza e la sofferenza, e lo avesse spinto a prepararsi per un’ultima, immortale, avventura.