Nella granulare luce dell’alba che lentamente si schiude, raggio dopo raggio, dal freddo notturno, nel bagliore soffuso che da dietro le montagne arriva a invadere ogni spicchio del terreno di gioco, nei triangoli di sole perfettamente equidistanti dagli spruzzi degli irrigatori automatici, nel silenzio ovattato del nuovo giorno, sopra il punto bianco a undici metri dalla porta, circondato dal verde preciso dell’erba scorciata di fresco, sistemo il pallone.
Lo faccio ruotare tra le mani, a cercare il corretto punto d’appoggio, poi lo colloco con delicatezza sul dischetto, in un gesto compiuto di solenne lentezza. È nel rispetto dei rituali, penso che l’uomo cerca il contatto col cielo. Nell’evitare la fretta, la disattenzione, l’incredulità. Nel calarsi con il corpo e con lo spirito nell’attimo, nell’affrancarsi dal flusso impetuoso del mondo. Il qui e l’ora, e nient’altro. Alzo la testa e guardo la porta. È vuota, come tutto lo stadio di Cornaredo. Non c’è nessuno, solo io. Sento il motore di un’automobile in attesa al semaforo, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delicato delle foglie degli alberi, il ronzio ipnotico degli annaffiatoi. Chiudo gli occhi e ripenso alla partita.
Secondo nonno Burt la nazionale francese che sarebbe scesa in campo contro la Svizzera quel benedetto lunedì 28 giugno era una delle più forti di tutti i tempi. Un attacco stellare, composto dal bomber Karim Benzema e dal velocissimo Kylian Mbappé, affiancati alle loro spalle da Antoine Griezmann, uno dei migliori calciatori nati negli anni Novanta.
«La cosa interessante», mi fece notare nonno Burt mentre sullo schermo leggevamo le formazioni, «è che buona parte della nazionale transalpina è composta da giocatori figli di immigrati. Benzema è algerino, Mbappé camerunense, Pogba proviene dalla Guinea, Kanté dal Mali, Kimpempe ha origini congolesi e haitiane...».
La Francia calcistica, mi spiegò, è una delle squadre più internazionali di sempre. Il loro primo giocatore di colore fu Rauol Diagne, che esordì con la maglia dei Bleu nel lontano 1931 (tutto questo mentre in Europa diventava sempre più tangibile il terrificante spettro del nazionalsocialismo), e da quel giorno i francesi si caratterizzarono per essere un esempio di convivenza pacifica tra etnie e culture diverse fra loro.
«Naturalmente ci furono problemi con i partiti di estrema destra, che volevano introdurre addirittura una quota che permettesse ai giocatori bianchi di avere più spazio in squadra, ma il buon senso prevalse e col tempo la Francia dimostrò non solo di essere una squadra di valore capace di vincere due Mondiali e due Europei, ma anche un gruppo eterogeneo, in grado di rappresentare il Paese nelle sue diverse sfaccettature».
La sera del 28 giugno 2021 la Francia, in quanto detentrice dell’ultima Coppa del mondo, si sentiva invincibile. Affrontava la piccola Svizzera, una nazionale che nella sua storia non aveva mai vinto nulla, e il cui massimo posizionamento agli Europei erano stati gli ottavi di finale del 2016. Negli occhi e nelle gambe i francesi nutrivano la sicurezza del campione, del forte contro il debole, del gatto annoiato che si appresta a inghiottire il topo dopo averci giocherellato un po’.
Invece i francesi, al quindicesimo minuto del primo tempo, dovettero da subito fare i conti con una Svizzera che non intendeva fare la parte della vittima sacrificale. Un gran cross di Zuber dalla fascia sinistra trova pronto l’attaccante del Benfica Seferovic, che piazza il pallone nell’angolino, dove il portiere francese non può arrivare. Da quel momento, in campo succede di tutto. Gli elvetici sbagliano un rigore, i francesi rimontano con una doppietta di Benzema in soli 120 secondi e con un gran goal all’incrocio dei pali di Pogba. Sul 3 a 1 per i transalpini la partita sembra finita, ma ecco di nuovo Seferovic, ancora di testa, riaprire il match quando mancano 9 minuti al fischio finale. E al novantesimo, mentre siamo tutti col fiato sospeso davanti allo schermo, è Mario Gavranovic, calciatore croato-bosniaco nato a Lugano, a ricevere il pallone. Sente l’arrivo del difensore avversario, lo dribbla e tira subito, senza neanche guardare. Otto milioni di tifosi in piedi, e la palla va oltre la fatica, la disperazione, il rammarico. E gonfia la rete. L’intera nazione è incredula.
I francesi lo sono ancora di più. Il resto è storia. La nazionale, dopo una soffertissima partita ai supplementari, arriva ai rigori e sconfigge la Francia, con Sommer che para l’ultimo rigore al più forte di tutti, il candidato al pallone d’oro Kylian Mbappé. Partono i cori, le strombazzate per le città, le bandiere rossocrociate e l’abbraccio collettivo che ci vede tutti uniti, tutti fratelli. «Una nazionale multietnica sconfitta da un’altra nazionale multietnica», mi disse nonno Burt, «simbolo di un’uguaglianza e di un’identità che non ha a che fare col nome o con la propria origine, ma col senso di appartenenza». Da Seferovic, autore della doppietta, nato a Sursee da genitori bosniaci, a Rodriguez, zurighese di origine cilena, passando per Mehmedi, della Macedonia del Nord, fino al camerunese Embolo, al dominicano Vargas, ai kosovari Shaqiri e Xhaka, al nigeriano Akanjii, al congolese Mbapu... Dietro a tutto questo, però, mi disse nonno Burt, c’era la mano dell’allenatore. «Vladimir Petkovic. Un uomo umile, spesso visto come scontroso o poco propenso alla chiacchiera solo perché ama il silenzio e crede che il calcio, in fondo, sia solo un gioco. Un uomo che ha vissuto la guerra in prima persona, nella sua Sarajevo, e che giunto in Ticino, ha lavorato come magazziniere per la Caritas, dedicandosi ad aiutare il prossimo, senza sbandierarlo ai quattro venti, ma impegnandosi in prima persona, come aveva sempre fatto in campo».
Per poi affrontare, mi disse il nonno, una lunga gavetta come allenatore: dalla panchina del Bellinzona a quella del Malcantone Agno, con cui conquista il campionato di Prima Lega nel 2003, mentre l’anno successivo diventa allenatore dell’FC Lugano, arrivando ottavo in Challenge League.
«La sua vera consacrazione avvenne però sulla panchina della Lazio, dove nel 2012 batté la Roma nel derby, la Juventus nel ritorno della semifinale di Coppa Italia, e ancora la Roma in finale, vincendo così il trofeo. Anche se, con ogni probabilità, la vittoria ottenuta sulla Francia lo gratifica più di ogni altra conquista ottenuta in carriera».
Quando riapro gli occhi lo stadio non è più vuoto. I seggiolini sono tutti occupati, cori e inni vengono cantati a squarciagola, a pochi metri dal dischetto l’arbitro, con la casacca gialla e il fischietto, e davanti a me Hugo Lloris, il portiere della nazionale francese. Mi giro e vedo i miei compagni, tutti con la maglietta rossa e la croce bianca e accanto a loro i grandi campioni d’Oltralpe. Si abbracciano, sorridono, battono le mani. Lloris mi invita a tirare. «Forza» dice. «Vediamo cosa sai fare, ragazzino». Poi sputa sui guantoni e si prepara.
Io prendo la rincorsa, mi avvento sul pallone, allungo la gamba, calcio di collo pieno e...