«Funiculì, funiculà!
Tirato co li ffune, ditto ’nfatto
’Ncielo se va, ’ncielo se va.
Se va comm’ ’à lu viento a l’intrasatto
Guè, saglie sà! Guè, saglie sà
Jamme, jamme ’ncoppa, jamme jà.»
«Funiculì, funiculà
tirati con la fune, detto e fatto
in cielo si va.
Si va come il vento all’improvviso
andiamo, andiamo dalla terra alla montagna.
Funiculì, funiculà».
In questi mesi in cui con insistenza si torna a parlare dell’ammodernamento o del ripristino di linee tramviarie e di funicolari come quella degli Angioli, la canzone di Luigi Denza sottolinea l’entusiasmo popolare che accompagnò, nell’Ottocento, la costruzione dei primi mezzi di trasporto su rotaia. A partire dalla seconda metà del secolo, tram e funicolari iniziarono a collegare le pianure con le montagne e i centri urbani con le periferie. Così l’euforia per il mezzo meccanico che portava sulla cima del Vesuvio nel 1879, dettò al giornalista Giuseppe Turco le parole della canzone «Funiculì Funiculà».
Nelle nostre regioni il fervore della gente per le rotaie – si scrisse – non è mai sbocciato, eccezion fatta per la linea del Gottardo. Agli inizi la rete dei tram di Lugano collegava Cassarate con la sosta centrale, situata a est di Palazzo Civico e venne prolungata più tardi fino a Castagnola. Verso nord le vetture si dirigevano verso Molino Nuovo e poi al cimitero, mentre un’altra linea andava verso Calprino (Paradiso). La rete si estendeva su un totale di circa otto chilometri.
Sempre dal centro, ma dal lungolago, a partire dal 1911 fu edificata la linea Cadro-Dino con un folcloristico vagone speciale aperto, «la giadiniera» agganciato d’estate per permettere ai turisti di apprezzare le bellezze del tragitto. Il vagone, oggi centenario, circola ancora sulla linea-museo di Blonay-Chamby, a Losanna. Le prime carrozze elettriche del tram luganese entrarono in servizio nel 1896 ed erano tutt’altro che confortevoli. Davanti e dietro erano aperte e senza protezione, esponendo il malcapitato manovratore alle intemperie dalle quali poteva proteggersi solo con un pesante cappotto («al rivàva a cà s’clozz cumè ‘n puiöö»). La figura spettrale del tranviere bianco (allora la neve arrivava anche in città, e tanta) non mancava di stupire e spaventare i bambini che vedevano transitare la vettura guidata da un «fantasma»: dalla paura «la püssé düra l’éva da imbutiglià!».
Troppe réclames sui «tramways»
annunciavano con una vigorosa scampanellata per avvertire del pericolo pedoni e ciclisti: viaggiavano infatti sulla strada. All’uscita dalle curve l’incontro faccia a faccia con l’ingombrante veicolo poteva costare al ciclista una lunga degenza in ospedale, conciando «per le feste» l’incauto pedalatore (al la metéva a pan e pesítt). Le carrozze degli esordi erano ricoperte da vistose pubblicità (le réclames, come venivano denominate in quei tempi in cui il francese era la lingua internazionale). Le fiancate, il davanti e il dietro e perfino il tetto delle vetture portavano la pubblicità per lo champagne Strub, la brillantina Tricofilina e il noto Brylcreem, usatissimo per rendere lucidi i capelli, l’aperitivo Campari, il digestivo torinese Ferro China Bisleri, il panettone Vanini. Il troppo stroppia e dopo numerose polemiche si giunse alla proibizione della pubblicità sui veicoli adibiti al trasporto pubblico dei passeggeri.
Una strana compagnia
Forniva l’energia elettrica per i primi tram – come ci informa Attilio Rezzonico (1) – la ditta Bucher & Dürrer di Maroggia, che sfruttava l’acqua proveniente dalla Val Mara. La fornitura di corrente subiva saltuari cali di tensione in grado di bloccare il «tramway» impedendogli di proseguire il tragitto. L’allora direttore del Grand Hôtel, Alessandro Béha, metteva premurosamente a disposizione dei passeggeri bloccati la pariglia di cavalli al servizio dei clienti del lussuoso albergo e il resto del percorso veniva effettuato in carrozza.
L’operazione di trasferimento richiedeva un certo tempo e non di rado la vettura veniva circondata da loschi figuri (maslosen), vestiti con una lunga tunica bianca e un «fez» rosso in testa. La strana compagnia – che agì indisturbata per numerose settimane – intendeva vendere ai viaggiatori tappeti orientali, avanzando non si sa bene quali giustificazioni per spiegare l’inusuale operazione.
Qualche tempo dopo si venne a scoprire che i presunti arabi provenivano in realtà da Napoli e la merce «orientale» era fabbricata a Monza.
E quei personaggi non erano i soli a cercare di rifilare a viandanti e turisti della paccottiglia: altri ambulanti circolavano portando a tracolla delle cassette a ripiani contenenti bigiotteria, spille e collane spacciate per autentiche, da vendere d’urgenza a causa di improbabili disgrazie occorse loro.
Centesimi che contano
Venendo a tempi più recenti, negli anni Sessanta del secolo scorso, i prezzi delle merci erano ben lontani dagli attuali e ancora abbastanza numerosi erano i prodotti che si potevano acquistare in città per l’incredibile prezzo di 5 centesimi. Una rondella di «regolizia» (i ragazzi chiamavano così la liquirizia), una grossa caramella «da cinch» al negozio del Gübelin, in viale Cattaneo, un saporito cono di gelato, fatto dal ristorante con la frutta ben matura (altro che i gelati industriali attuali!), anche se composto da una sola pallina. Per avere una specie di sandwich di gelato spalmato in mezzo a due biscotti, acquistando dall’ambulante «Formica» occorreva però spendere di più. Numerosi apparecchi «automatici» funzionavano con monete da 20 centesimi. Alcuni, alla stazione, erogavano 3 sigarette Flint o piccole scatole di caramelle «mou»; in città il jukebox posto all’aperto davanti al negozio di dischi Gemetti, con 20 centesimi permetteva di ascoltare le canzoni di Elvis Presley e Toni Dallara. In certi bar, con questa cifra si poteva fare una partita al flipper Wild West e con qualche abile spintarella si poteva perfino vincere una partita gratuita. Monete, dunque, preziose che i ragazzi (i éva vìscur – vispi) sapevano «fabbricare» con l’aiuto del tram. Ponendo i 5 centesimi sotto alle ruote del mezzo e trasformando così le monetine in pezzi più grandi che molti apparecchi accettavano, non riconoscendo i 20 centesimi «artigianali» come falsi.
Piccole astuzie di ragazzotti squattrinati ma ingegnosi.