«“Piva piva l’oli d’oliva”… Paroll ch’a iè in aria, chissà si vör dii – scriveva Sergio Maspoli nel 1971 – Iè ‘nscì, forse par la rima con piva, ma i emm sempro cantaa senza pensagh sü. E i tradizión da Natàl? Da la Vigilia? La Vigilia! Quéla pas dal camin d’una volta. Coi sciücch e i sciüchitt chi sfregüiàva brasa. E föra l’ondàda calda di campann a biciocà. A tòcc e boccon i tradizión i finiss chissà ‘ndova. I vann e i gh’è pü. Una volta ol Natàl l’éva fai da famiglia, da pollée, da stabiéll. L’éva fai da cà, insomma».
«“Piva piva l’olio d’oliva”… Parole che volano, chissà cosa significano. Sono così, forse per accordare la rima con piva, ma le abbiamo sempre cantate senza pensare al loro significato. La Vigilia. Quella pace del camino di una volta! Con tronchi e tronchetti che si sbriciolavano in brace. E fuori, l’onda morbida delle campane che chiamano alla Festa. A spizzichi e bocconi le tradizioni finiscono chissà dove. Vanno e non ci sono più. Una volta il Natale era fatto di famiglia, di pollai, di animali della corte. Era una Festa fatta di semplicità casalinga».
A fine anno, dalle profondità più remote affiorano, sempre più sbiaditi, i valori del Natale: la statuina del bambino Gesù, l’albero, il presepe con i suoi personaggi, travolti e soffocati dal bailamme di luci, di colori e dai gadget tecnologici.
Persi l’origine e il significato profondo di questi simboli, «cose» che sono esposte sin da ottobre nei grandi magazzini, malamente riprodotte e moltiplicate, non a portata di cuore ma unicamente di portafogli.
Pochi ricordano che il presepe nasce nel Quattrocento in Liguria e in Campania, come derivazione dai drammi liturgici medievali. Allora, per le Sacre Rappresentazioni si utilizzavano dei manichini articolati che potevano raggiungere l’altezza di 70 centimetri, con gli occhi in pasta di vetro per sembrare più autentici. Si destinava un angolo dell’abitazione per rappresentare
la nascita di Cristo, una specie di spettacolo televisivo «ante litteram». Per produrre i personaggi si svilupparono numerose botteghe specializzate nella loro produzione, organizzate secondo una catena artigianale. I falegnami approntavano i pezzi di legno, gli scultori li intagliavano, i pittori li laccavano, i sarti li rivestivano, i ricamatori decoravano gli abiti, i fabbri e gli argentieri fornivano gli accessori. Il tocco finale e anche la notorietà era riconosciuta a coloro che terminavano il lavoro.
Tra gli iniziatori indiscussi di questa forma particolare di arte ci fu un nucleo famigliare proveniente dalle nostre zone lacuali, i Gagini da Bissone. Questa famiglia conobbe una specie di diaspora: un ramo scelse di insediarsi e lavorare a Genova, mentre l’altro, quello del capostipite Domenico, sin dal 14.mo secolo si stabilì a Palermo, dove lavorò come «pasturaro» insieme con i migliori costruttori di presepi, tra i quali il celeberrimo Francesco Laurana. Il più noto dei Gagini genovesi, Giovan Battista, fondò perfino un’Accademia dove si insegnava a disegnare e scolpire le figure. Morì nel 1659, lasciando vocazione e bottega al figlio che contribuì ad aggiornare la scultura genovese, addentrandola nelle prime suggestioni barocche.
Nel Settecento, il presepio visse la sua stagione d’oro. Uscì dalle chiese, dov’era stato oggetto di devozione religiosa, per entrare nelle case dell’aristocrazia e divenire oggetto di culto ben più mondano e frivolo. Nobili e borghesi gareggiavano nell’allestire impianti scenografici giganteschi e spettacolari, in cui il gruppo della Sacra Famiglia era sopraffatto da un tripudio di scene profane che riproducevano situazioni, ambienti e costumi popolari.
In quell’epoca, eserciti interi di affamati seminudi convergevano verso le città del Meridione, tentando di sfuggire alla rapacità dei signorotti locali, i baroni.
Il cibo, nei suoi barocchi trionfi, era il pensiero dominante del popolo e il presepe ne divenne l’icastica rappresentazione. E fu così che lungo le pianure muschiate e le montagne innevate del presepe napoletano, sull’eccitazione onirica della fame, vennero disseminati gli artigiani venditori dei prodotti alimentari più ambiti, dalle braciole alle soppressate, dai maccheroni alle caciotte, dalle triglie ai guarracini. Il grido dei personaggi dei presepi divenne: «Magnate, che ve fa bene! Magnate, che è meglio che all’auto munno (all’altro mondo) jate cu la panza chiena (piena) che cu lu ventre speruto (vuoto)».
Michele Cuciniello, ideatore di uno splendido presepio composto di 800 pezzi che comprendono perfino dieci cavalli, due scimmie e 42 angeli, esposti nel Museo di San Martino a Napoli, arrivò ad affermare: «Il presepio è il Vangelo tradotto in dialetto partenopeo».
Viste le premesse, non sorprenderà di scoprire, nel presepe tradizionale napoletano, il mercato da sempre centro economico della città.
Rappresentava tutte le arti e i mestieri: dal macellaio al venditore di ricotta e formaggio, dal pollivendolo al venditore di uova, dal panettiere ai venditori di ciliegie e pomodori, dal vinaio al commerciante di castagne. Nella rappresentazione non potevano mancare il fiume, simbolo del collegamento tra la vita e la morte e il pozzo, la connessione tra il mondo sotterraneo dei morti e la superficie. Presenti pure il forno del pane, simbolo profondamente cristiano insieme con il vino e l’osteria, rifugio di malfattori e viandanti disonesti e senza scrupoli che rifiutò l’ospitalità alla Sacra Famiglia. Nelle sue vicinanze si collocava la statua della meretrice che rappresentava la contrapposizione con la purezza della Vergine. Il pescivendolo o pescatore di anime era pure legato alla cultura popolare ma anche a quella cristiana, essendo il pesce uno dei più antichi simboli della religione cattolica.
L’osservazione-descrizione dei personaggi e il loro significato potrebbe continuare a lungo, ma a questo punto immaginiamo il nostro unico lettore assalito da un certo languorino che lo potrebbe portare ad assaporare un dolce strettamente legato alla tradizione natalizia: il panettone. Proprio una fetta di quella leccornia che i nostri vecchi conservavano a lungo per consumarla il giorno di San Biagio, il 2 febbraio, per proteggersi dal mal di gola.
Già nel 1650, il medico Vincenzo Tanara descriveva una pagnotta tipica della cucina contadina bolognese, contenente acqua melata, uva secca e zucca candita nel miele.
Quasi due secoli dopo anche in Lombardia si consumava un dolce chiamato Panatton de Natàl composto di granoturco condito con spicchi di mele e chicchi d’uva. Ne elaborò la ricetta un vecchio panettiere di Saronno che aggiunse alla farina zucchero, fichi secchi e mele e gli diede il nome di Marmòtt. Il salto decisivo per trasformare la pagnotta avvenne alla fine dell’Ottocento, con la calata dei pasticcieri svizzeri in Italia: i Klainguti si stabilirono a Genova, i Caflish a Napoli e Palermo, i Caviezel a Catania. Queste famiglie contribuirono a far conoscere la lievitazione prolungata e soffice, utile per cucinare i «nuovi» panettoni, le brioches, i savarin.
Negli anni venti del secolo scorso due industriali, in pieno accordo nonostante fossero in accanita concorrenza tra di loro, utilizzarono proprio questo tipo di lievitazione per «lanciare» sul mercato italiano il nuovo dolce: il panettone. Si chiamavano Gino Alemagna e Angelo Motta.
Foto 1: le 10 statue lignee del Presepio di Giornico del XVI secolo
Foto 2: Nicola Vescovo di mira (Turchia)
Foto 3: il culto di San Nicola si difonde in tutta Europa
Foto 4: un ricchisimo Natale in una casa borghese
Foto 5: la ricchezza del resepio di Cuciniello