«Ahi serva Italia di dolore ostello/ nave senza nocchiere in gran tempesta/non donna di provincie, ma bordello», Purgatorio, Canto VI.
Un inizio aulico, ricordando le celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri.
Per discutere invece, con il tono leggero che caratterizza le pagine «Dalla vecchia Hermes», il tema scabrosetto del linguaggio dei nostri vecchi che frequentemente alludeva, senza troppe remore o censure, alla sessualità.
Niente di paragonabile alle sconcezze facilmente rintracciabili da tutti – piccoli e grandi – sui media elettronici, ma allusioni e modi di dire allora sulla bocca di tutti, senza indagare troppo sul significato delle espressioni utilizzate. «Tana» si diceva per esprimere disappunto o grande stupore: «ööh, tana», in apparenza un’esclamazione, era in realtà l’abbreviazione del vocabolo «pütana» che non si sarebbe potuto pronunciare senza imbarazzo in una conversazione pubblica.
Era una delle numerose espressioni «mimetizzate», riferite alla sfera religiosa o sessuale che permettevano di evitarne l’uso in modo esplicito, una specie di camuffamento per mitigarne la volgarità. Nel caso della religione, il sotterfugio permetteva di aggirare il richiamo di entità come il diavolo o i santi che era meglio non evocare, per evitare il peccato oppure – non si sa mai – di veder comparire davvero Satana con l’intenzione di arraffare la tua anima. Ecco allora le esclamazioni «mascherate»: «dianzan», «diaz», «crispas», «madòncina», «cribiu», «òrcu» o in altre lingue importate dagli emigranti: «sacranùn» (Sacré Nom de Dieu), tutte espressioni i cui riferimenti religiosi sono palesi.
Un gran... casino
Una parola impiegata ripetutamente nelle conversazioni odierne è «casino, far casino», inteso nel senso di fare disordine, chiasso, confusione. Dimenticandone l’origine che ha il significato di «casa chiusa», «postribolo». Il motivo dello «slittamento di senso» si spiega con il fatto che i «casini» (i casòtt in dialetto) sono scomparsi da tempo grazie alla Legge Merlìn, che in Italia ne decretò la chiusura nel 1958.
Ovvio che i giovani d’oggi non conoscano l’origine della parola che designava i locali adibiti alla prostituzione. Con le «ospiti» che sfilavano poco vestite, i divani dove sedevano i clienti squattrinati che «facevano flanella» e l’inflessibile «madame» che incassava la marchetta pattuita. I locali erano le «palestre» per il tirocinio di generazioni di giovani. Molti dei quali si recavano a Como o a Milano viaggiando con il treno, alcuni addirittura accompagnati dal premuroso papà o dall’arzillo nonnetto.
Allora come oggi, in tutti i nostri villaggi il mercato del sesso aveva i suoi consumatori. Nelle piccole comunità, dove le voci corrono, l’attività «accessoria» di alcune signore era ben nota agli adulti e certo non suscitava eccessivo scandalo, trattandosi spesso di donne nubili o vedove che avevano bisogno di racimolare qualche soldo. Al massimo la gente parlava di «peltrera» o «carampana» sicuramente ignorando che nel Quattrocento a Venezia, le case in cui erano confinate le prostitute appartenevano alla nobile famiglia dei Rampani, e le donne erano, appunto, le Ca’Rampane.
«La gh’a i man d’or»
L’attività delle signore era ovviamente incomprensibile ai giovanissimi. Che ne intuivano comunque la particolarità captando i discorsi dei grandi che ammiccavano, si davano di gomito, parlandone con allusioni e strizzate d’occhi. Com’era abitudine allora, ad alcune veniva attribuito un nomignolo: Bochín o Cicipa e l’espressione «la gh’a i man d’or» non sempre significava che la donna era abile solo nel ricamo di centrini e federe. Nel linguaggio quotidiano di allora, pronunciate anche da donne morigerate, non mancavano comunque espressioni di inaudita violenza. Quando non si riusciva a determinare il colpevole di un danno o di un misfatto si affermava: «va pö a cercà chi che al l’a róta» con un pesante sottinteso riferito alla femmina.
Alcune di queste donne oramai «in disarmo» frequentavano senza paura ristoranti e osterie dove, forti delle esperienze vissute nell’esercizio della professione, tenevano testa anche ai più rozzi, rispondendo per le rime agli sberleffi e alle provocazioni. Se ne incontravano anche nelle bettole di Sassello mentre «tiravano» lunghe sequenze di bicchieri di bianco, in attesa dell’arrivo del protettore, il magnaccia che non si alzava mai prima di mezzogiorno. Lui arrivava, flemmatico e pericoloso, sempre elegantissimo con cappello, cravatta e gilet. La gente, incontrandolo, lo chiamava – ma senza farsi sentire, per carità – «ul sparacaca».
In questo mondo dominato dai maschi (ma certe «regiúre» si facevano rispettare facendo «trottare» mariti e figli) le più sprovvedute di fronte alle provocazioni degli avventori erano le giovani cameriere che subivano le angherie dei gerenti e degli avventori, spesso avvinazzati a causa del pessimo vino tracannato «da tegnìss al tavul».
Le ragazze entravano presto nel mondo del lavoro e dovevano imparare a difendersi, ribattendo per le rime agli avventori ma anche divincolandosi velocemente per evitare le rapaci mani di alcuni. Portando piatti, bicchieri e litri di vino di tavolo in tavolo dovevano eccellere in slalom e contorsioni da applausi. Il gioco di finte e scatti non sempre aveva successo perché in sala c’erano degli avventori appiccicosi ai quali, proprio perché clienti, nessuno poteva dire niente.
Certo, dopo una pacca o un pizzicotto più arditi, qualche frequentatore si ritrovava con la verdura del minestrone sul collo della giacca o i «fidelìt» della minestrina sulla cravatta, ma la ritorsione era pericolosa perché poteva costare il posto di lavoro alla giovane cameriera. Purtroppo, alcuni clienti erano incorreggibili maniaci del «tocco» e, anzi, si vantavano quando riuscivano nell’intento di molestare. Oggi verrebbero giustamente condannati per comportamento inadeguato e persecuzione ma allora ci si limitava ad attribuire loro il nomignolo, invero non molto onorevole, di «paspéta».
«Al gh’a i man curiús»
Per fortuna i tempi hanno segnato un’evoluzione anche in questo settore. Come racconta divertito il caro Gualtiero Gualtieri.
Un giorno un giovane avventore, attratto dall’avvenenza di una cameriera, allungò le mani, quasi fosse cosa del tutto normale. La reazione della ragazza però non fu accomodante. Lei si risentì e costrinse il giovane villano a scusarsi.
Ma meglio di lui fece il suo compagno di bevute che con una battuta riuscì a far tornare il sorriso tra parte lesa e offensore. Il compare proclamò: «Ul mè amìs l’è da scüsà, parché al gh’a i man curiús» (è da scusare perché ha le mani curiose).