Ciò che assillava maggiormente la popolazione in tempo di guerra erano i «bollini» del razionamento. La confederazione elvetica, all'inizio del conflitto, per distribuire equamente i generi alimentari, siccome la merce scarseggiava, aveva introdotto i timbri che servivano per acquistare merce con parsimonia: il pane, la pasta, lo zucchero, il riso e così via. Senza bollini, niente alimenti! In seguito furono introdotti anche per la benzina e il gasolio. Tutto era razionato e per le famiglie numerose, con i mariti a militare, i bollini non bastavano mai e la fame era tanta. A Molino Nuovo ci si arrangiava come si poteva. Il Locatelli panettiere di Vignola, coadiuvato dai figli che bollivano e sbucciavano fino a 70-80 chili di patate al giorno, dopo averle tagliate per bene le aggiungeva alla farina nera per fare pagnotte gonfie e pesanti. Il pane lo vendeva raffermo il giorno dopo: la vendita di quello fresco e bianco era rigorosamente proibita.
Mio zio Pierino aveva una piccola ditta di affissioni e quindi usufruiva dei bollini-carburante per il camioncino: alla minima discesa andava in «folle» per non consumare benzina. I bollini risparmiati li barattava con quelli degli alimenti. Il macellaio Bruno Zambelli tagliava a fette sottilissime quel poco di carne che c'era per dare l'illusione che fosse tanta. Mentre il calzolaio Dino Righeschi rattoppava scarpe e sandali con un cartone molto resistente misto a colla, per far sì che le suole bucate tenessero qualche mese in più. In ogni angolo spuntava un orticello: quello della Pinuccia Sampietro in Vignola e del Redaelli in fondo alla via Beltramina erano i più grandi e rigogliosi. Quando la verdura era in abbondanza la portavano al negozio dei miei genitori per guadagnare qualche franco. Il negozio con annessa latteria era in via Trevano 31. Con i generi alimentari era un dramma. Mia madre Eros Finardi, la «sciura Eros» come veniva chiamata da tutti, aveva un difetto (o una virtù?): non sapeva dire di no alle madri che facevano la spesa e che non avevano abbastanza bollini.
Ogni giorno era il solito ritornello: «Sciura Eros, ghu mia asee bulin...». «Sciura Eros i bulin ghai du pö setimana che vegnn», «Sciura Eros ghu a cà i fiöö che gha famm». E mia madre, pur consapevole di incorrere in sanzioni, il pane, il latte, il riso o altro li consegnava ugualmente con il suo abituale sorriso, contenta di aiutare la gente. I bollini venivano raccolti in uno scatolone, incollati su appositi formulari e spediti a Bellinzona all'intransigente Ufficio dell'economia di guerra. Per risparmiare, la colla veniva preparata con fogli oleosi bolliti nell'acqua, «la cola da péss». L'ufficio ogni tanto mandava due severi funzionari: erano vestiti di scuro, con valigetta nera, e controllavano che i bollini spediti corrispondessero alle vendite effettuate. Naturalmente non c'era una volta che i conti tornassero e mia madre con le lacrime agli occhi si giustificava dicendo: «Come faccio a rifiutare gli alimenti a tanti bambini di Vignola? Cosa devo dire alle famiglie che devono mangiare e hanno finito i bollini?» Penso che alcune multe le siano state bonariamente condonate, altre le avrà dovute pagare. E venne il giorno della fine della guerra: le campane suonavano a festa, i bollini ormai non servivano più. Lo scatolone, con immensa gioia e allegria, finì nella stufa a legna. L'incubo era terminato. Ho voluto ricordare questi episodi perché a 70 anni di distanza capita di incontrare qualche anziano che mi rammenta quegli anni tribolati della guerra vissuti nel quartiere del Molino Nuovo, dove una figura centrale, indimenticabile, la «Sciura Eros», con umiltà faceva del bene a piene mani.