Negli anni passati in negozio, mi è capitato un paio di volte di servire degli arabi. In una occasione si sono presentati in cinque: un uomo di mezza età, con tanto di tonaca bianca e copricapo in telo colorato, una giovane ragazza, due donne vestite di nero con viso coperto e una signora che ho presto scoperto essere l’interprete.
L’uomo ha preso parola per primo, tenendo banco almeno per due minuti in una lingua assolutamente incomprensibile, accompagnata da gesti ampi e lenti. Dal brevissimo riassunto dell’interprete ho appreso che era il padre della ragazza, la quale si sarebbe sposata tre mesi più avanti. Mi sono chiesta chi fossero le due donne in nero. Forse due sorelle maggiori, forse una di loro era la madre della ragazza e l’altra una zia. Naturalmente non ho fatto domande, perché la mia regola in negozio è sempre stata quella di prestare attenzione e ascolto a tutti, senza però chiedere dettagli o precisazioni non comunicati spontaneamente dal cliente stesso.
La ragazza era una bella figliola prosperosa, con due occhi scurissimi e dei magnifici capelli lunghi, lucidi. Ho subito mostrato l’abito più bello ed elaborato che avevo in quel momento in negozio. La ragazza sembrava affascinata, ma il padre ha parlato velocemente con l’interprete indicandole di spiegarmi meglio.
«Vorrebbero vedere qualche modello sulle riviste specializzate.»
Sono subito andata in laboratorio a prendere gli ultimissimi numeri delle più rinomate pubblicazioni. Non sapevo bene se porgere le riviste alla sposa o al padre, ma l’uomo mi ha tolto immediatamente dall’imbarazzo, piegando verso di sé l’indice, gesto che ho capito anche senza l’interprete. Ho iniziato a sfogliare davanti a lui una rivista, per indicargli come doveva fare, ma l’uomo ha preso il volumetto e lo ha chiuso, mettendolo sul tavolo. Per un attimo ho pensato che si fosse offeso. Batteva la mano sulla rivista, guardandomi. Meno male che è intervenuta in soccorso l’interprete, persona simpatica e sensibile.
«Dice che va bene l’abito in copertina!»
In pratica, pensando che sulla copertina in genere viene pubblicato l’abito più bello della collezione, il padre aveva fatto la sua scelta, senza nemmeno dare un’occhiata agli altri modelli. Nel mio totale imbarazzo, ho guardato la figlia negli occhi, cercando di cogliere una reazione. La sposina ha confermato, annuendo appena appena con il capo. Le due donne in nero si sono scambiate qualche frase bisbigliando, avvicinando la testa una all’altra, senza però guardarsi.
Onde evitare spiacevoli soprese, ho accennato all’interprete che l’abito in questione probabilmente sarebbe costato sugli ottomila franchi, senza contare gli accessori. Ancor prima che la donna iniziasse a tradurre, il padre ha alzato una mano chiudendo gli occhi, come per dire di lasciar perdere quell’argomento. Per uscire da quella situazione artificiale, mi sono sforzata di parlare.
«Bene! Allora devo prendere le misure della signorina.»
Ho indicato in qualche modo alla giovane di seguirmi in sala prove. Ho dovuto arrangiarmi come potevo per le varie misurazioni, perché la ragazza non si è svestita e, naturalmente, io non le ho chiesto di farlo. Continuavo a rimuginare sul fatto che non mi era mai capitato che qualcuno decidesse in pochi minuti e per di più sulla base di una copertina. Ora dovevo solo trovare il modo di concordare tempi e modalità di consegna e pagamento. Non si sa mai…
Prima che riordinassi le idee, è venuta verso di me l’interprete con in mano un’altra rivista. «Ecco, hanno già cambiato idea, c’era da immaginarselo!» ho pensato, sforzandomi però di sorridere con aria interrogativa. Ma la signora mi ha comunicato:
«Ora vogliono scegliere gli altri abiti.»
Ho dato un’occhiata veloce alle due donne in nero, pensando che forse erano in cerca di un abito per partecipare al matrimonio della ragazza, ma l’interprete ha subito risolto il dubbio:
«L’abito bianco è per il matrimonio, ma la festa nella loro tradizione dura sette giorni, Ci vogliono altri sei abiti, di colori e modelli diversi. Un abito al giorno.»
L’ora successiva è passata sfogliando praticamente tutte le riviste che avevo in negozio, alla ricerca degli abiti più ricchi e da favola che si potessero trovare. Anche la sposina sembrava dire la propria opinione senza problemi. Le due donne non erano più completamente taciturne e a loro modo seguivano il discorso tra figlia e padre. Alla fine hanno scelto un abito azzurro, con una lunga coda, uno rosso fuoco, ornato da mille perle, uno blu elettrico con paillettes… Insomma, roba da Mille e una notte!
Una volta tutto deciso, i cinque sembravano allegri e un po’ meno compassati dell’inizio. A me il compito di preparare sette abiti da sogno, in meno di tre mesi. Prima che uscissero dal negozio, mi sono presa un ultimo piccolo spavento, alle parole dell’interprete.
«Naturalmente il signore si aspetta che lei venga a New York per tutto il periodo della festa, in modo da vestire e svestire la ragazza all’occorrenza. Le pagherà tutto: viaggio, alloggio, compenso…»
Non potevo certo lasciare il negozio per dieci giorni, e in ogni caso non avevo nessuna intenzione di andare in qualche paese arabo o in America. Per un attimo ho pensato che non accettare di mettersi a disposizione poteva significare perdere la vendita dei sette abiti, ma ho preferito dire la verità. La risposta dell’interprete è stata di grande sollievo.
«Il signore è dispiaciuto, ma capisce. La ringrazia di tutto. È molto contento dei vestiti scelti e tornerà anche per il matrimonio dell’altra figlia.»
Infatti, qualche anno più tardi, altri sette abiti da favola…