Quando scoppiò il covid, che ancora non ci ha mollato, al primo lockdown ci fu una fase di diffuse speranze: sia sulla durata dell’epidemia, poi diventata pandemia, sia su come ci saremmo ritrovati una volta usciti dalla tempesta. Aleggiava l’ottimismo che portava nella sua scia vicinanze, propensione all’aiuto reciproco, solidarietà, fiducia. Usciremo cambiati, ce la faremo, diventeremo migliori. Era il bicchiere mezzo pieno. Quello mezzo vuoto parlava già dei disastri che avrebbe provocato il contagio: ripiegamento su se stessi, diffidenza, solitudini, psicolabilità. Molti dissero che con il confinamento avevano riscoperto (o scoperto) il significato di essere famiglia. Altri capirono le conseguenze della prossimità forzata, dei cortocircuiti nei rapporti, delle frane matrimoniali. Una certezza, se ce n’era bisogno, è stata per i più – fortunatamente – il ritrovare la famiglia e l’importanza di fare rotta comune, di navigare insieme verso il futuro. Il punto di partenza, ieri come oggi, resta quella navicella fragile e sballottata dalle onde, e comunque decisiva per se stessa e per la comunità che vogliamo essere. La famiglia resta l’architrave su cui edificare il domani: per affrontare gli interrogativi che ogni giorno ci distribuisce, per vincere la tentazione della chiusura ermetica, per darsi un colpo di mano, remando compatti.
A Origlio un porto dove approdare
Una che sente forte questo empito e ci lavora da donna, moglie, madre, poi da educatrice e formatrice, è Eveline Moggi, che tiene studio a Origlio e da anni lavora per dare – o far ritrovare – saldezza alla famiglia, ai suoi componenti. C’è un dinamismo insito già nella sua associazione che si chiama, non a caso, INcrescita. Che si traduce nell’idea di essere, fare, salpare, cercare un porto dove approdare…