di Giuseppe Zois
Lorenzo Alberio, 56 anni, nato e cresciuto a Lugano, in via dei Ronchi 5, figlio di Sylva Bernasconi e Franco Alberio. Esordio scolastico a Molino Nuovo con un grato ricordo per il maestro Elvezio Quattrocchi, liceo a Lugano-Centro. Poi, come tappe fondamentali, Facoltà di medicina a Berna, quindi due anni come medico assistente all’ospedale Italiano di Viganello, uno anno all’ospedale La Carità di Locarno e di nuovo a Berna dove ha completato la formazione in medicina interna. E qui ha scoperto «per caso», l’ematologia, decidendo di specializzarsi in questo ramo con un’esperienza di ricerca biennale a Oklahoma City negli Stati Uniti. Rientro a Berna con formazione di ematologo, diventando «privatdozent» e professore associato. Da sei anni è a Losanna come primario di ematologia generale ed emostasi al Centre Hospitalier Universitaire Vaudois e docente universitario. È sposato con Bettina Ostini, padre di Letizia, Giorgia, Martino e Pietro.
Luganese di nascita, da mezza vita a Berna, primario di ematologia e docente universitario a Losanna. In questi essenziali dati è racchiusa la biografia di Lorenzo Alberio, partito da via dei Ronchi, nel quartiere popolare di Molino Nuovo, protagonista di una carriera esemplare e già al top. S’è realizzato da solo, con le sue doti di intelligenza e sensibilità alle quali ha sempre accompagnato, per indole e per convinzione, la tenacia e l’essenzialità, la delicatezza e una non comune attenzione agli altri, al prossimo, soprattutto ai malati.
Anche chi lo incontra per la prima volta percepisce questo ricco bagaglio di umanità. Lorenzo interpreta la sua vocazione – perché questa c’è all’origine della sua scelta – con il cuore prima che con il camice di un’esperienza di prim’ordine a livello nazionale. Non è uno che ama la visibilità, anzi rifugge da riflettori e ribalte: il suo tempo è fatto di lavoro, applicazione, aggiornamento continuo. Vive quello che fa come una missione, che viaggia su un doppio binario: perfezionare la conoscenza per migliorare il suo prodigarsi tra i malati; trasmettere con l’insegnamento il patrimonio intellettuale in continua accumulazione, grazie a costanza, volontà e capacità riconosciute. Chiunque si sente fragile quando varca la soglia di un ospedale, portatovi dalla malattia e assillato da dubbi, ansie, preoccupazioni e paure. Lorenzo possiede il dono di infondere affidabilità: comprende, accompagna, aiuta e sostiene. Fa percepire una miscela terapeutica straordinaria a base di fiducia, competenza, vicinanza di tutto uno staff mobilitato in nome della vita. Punta molto anche sulla motivazione del paziente, che deve crederci, fidarsi, mettercela tutta.
Particolare non trascurabile: il suo orizzonte di riferimento include anche la presenza del buon Dio accanto all’uomo. Lorenzo è uno che riesce a dissipare le nebbie che rendono normalmente inquieti un ricovero e una degenza in ospedale, i vari passaggi nelle prevedibili sofferenze, le molte incertezze che si affacciano nella mente assillandola. Con le sue parole, con la sua scienza, alimentata di continuo dall’aggiornamento e dalla ricerca, dà consistenza al raggiungimento del traguardo più alto di sempre: il bene di star bene.
Il palo della cuccagna e il corteo della Vendemmia
Ti sei laureato e hai fatto il medico di corsia in Ticino, poi la specializzazione in ematologia a Berna e oggi sei primario e docente universitario a Losanna. Che ricordi hai della città in cui sei nato e cresciuto?
«Quand’ero piccolo e si andava in centro con i nonni o con la mamma, si diceva “andiamo in città” o “nemm a Lugan”. Molino Nuovo era ancora periferia, un quartiere popolare, dove le vie richiamano ancora oggi l’antica vocazione contadina (via alla Campagna, via delle Aie, via Vignola, via dei Ronchi, via Ronchetto…). Ricordo quando a Carnevale in piazza della Riforma c’era il palo della cuccagna, insaponatissimo per rendere difficoltosa la scalata alla conquista dei premi, e in autunno il corteo per la Festa della Vendemmia sul lungolago. Da bambino una tappa obbligata era la visita ai daini nel parco Ciani e il lancio del pane ai gabbiani».
E quali i ricordi della famiglia?
«Quando sfogliavamo gli album con le foto di mamma e papà bambini, con mia sorella Michela restavamo colpiti dalla vita, dai costumi di quell’epoca che ci appariva già remota. Rivivo quelle sensazioni oggi, quando ritorno a Lugano e vedo quanto si sono sviluppati edilizia e traffico.
Restano indimenticabili i pomeriggi trascorsi con i nonni materni Maria Bottinelli e Otto Bernasconi nel giardino della loro casa in via Trevano 47 – originariamente Nido d’infanzia con un rosone celeste e un bambino in fasce, acquistata negli anni cinquanta – oppure con la nonna paterna Teresa Banfi, allora già vedova di Antonio Alberio, che a Lugano molti ricordano per il commercio di frutta e verdura in centro, inizialmente in via Pretorio 5, continuato dagli zii nell’edificio dove subentrò il calzaturificio Bally, e in via Peri, accanto alla polleria Carpani».
Per anni hai vestito la divisa scout…
«È stata un’esperienza fondamentale, che ha completato quanto mi hanno trasmesso i genitori. Ho avuto la possibilità di guidare un gruppo di una trentina di ragazzi già in giovane età, negli anni del liceo, organizzando le attività di ogni fine settimana, e poi nei primi quattro anni universitari quando avevo la responsabilità di uno dei due gruppi Aget di Lugano, con duecento persone. La responsabilità può essere un servizio verso gli altri, e questa è la dimensione educativa, oppure può servire per affermare se stessi, e qui siamo all’autoreferenzialità. Altro aspetto: essendo in compagnia con coetanei, senza la presenza di adulti, si creava anche un dinamismo incredibile, combinando una componente di creatività e temerarietà giovanili con un senso di responsabilità e ponderazione formativi e utili alla maturità. Lo scoutismo insegna a vivere in stretto contatto con la natura, a gustare le cose semplici, a cavarsela con poco, a essere creativi. Una preziosa palestra di vita».
«Sognavo di fare il muratore, invece eccomi in corsia…»
Come e quando hai scoperto la vocazione a fare il medico?
«È stata una scelta dell’ultimo momento. Per diversi anni, da piccolo, affascinato dai cantieri, sognavo di fare il muratore; poi c’è stato un periodo in cui non mi ponevo il problema. All’inizio del liceo, facendo latino e greco, pensavo di dedicarmi all’archeologia e questo è stato l’unico momento in cui i miei genitori sono intervenuti, sconsigliandomi questa scelta. Più avanti ho pensato di poter accostare fisica e filosofia e infine, all’approssimarsi della chiusura delle iscrizioni, ho deciso per medicina. Nel subconscio, immagino sia stata la sintesi del mio desiderio di capire il funzionamento dell’organismo umano con la passione per la persona e la volontà di dare alla mia vita una prospettiva di servizio al prossimo».
All’improvviso l’interesse per l’ematologia...
«Dopo i primi tre anni di lavoro nel Ticino, ero rientrato a Berna per completare la formazione di medicina interna, con l’idea di tornare quale internista a Lugano. Un giorno, il mio capoclinica, Marzio Sabbioni, mi propose di chiedere un consulto ematologico per un paziente ospedalizzato nel nostro reparto di medicina bio-psico-sociale. E questo cambiò il corso delle cose. Infatti, l’ematologa Franziska Demarmels, che era venuta a fare il consulto, mi propose poco tempo dopo di occupare un posto di assistente liberatosi all’ultimo momento. Accettai e l’incontro con l’ematologia fu un vero colpo di fulmine».
In che cosa consiste questa tua specialità?
«Questo è un campo estremamente affascinante, complesso e vasto: c’è l’ematologia benigna – che tratta e cura ad esempio, tutti i problemi di anemia – e c’è quella maligna o emato-oncologia, con fra l’altro le forme acute o croniche di leucemia. Terza branca, il mio campo di ricerca: l’emostasi, con i problemi che portano a sanguinare o a creare trombosi. Il quarto ambito è quello dell’immunoematologia, e qui entriamo nel campo delle trasfusioni. L’ematologo poi lavora in clinica a contatto con i pazienti e in laboratorio occupandosi delle tecniche analitiche».
In parallelo sei professore alla Facoltà di medicina dell’Università di Losanna…
«Ogni medico ha l’obbligo morale di mantenere il proprio sapere sempre aggiornato; essendo poi in un ospedale grande, universitario in particolare, c’è l’aspetto della trasmissione di questo sapere, quindi l’insegnamento agli studenti e ai giovani colleghi di lavoro, creando interesse e passione verso la ricerca scientifica. Tutto concorre anche a mantenere la propria capacità clinica al top, così da assicurare ai pazienti le cure migliori a livello di processi diagnostici e di terapia».
«La fatica più grande? Non riuscire a trovare il tempo per tutti e tutto»
Abiti con la famiglia a Berna e ogni giorno vai e torni da Losanna in treno. Un considerevole sacrificio…
«Quando mi si presentò l’opportunità del posto a Losanna, mi sono un po’ documentato, apprendendo ad esempio che i pendolari sono più ipertesi e più depressi. Ero un po’ inquieto. In realtà, lo spostamento in treno da Berna a Losanna si è rivelato essere un vantaggio. Sono due ore di tempo protetto, una al mattino e una alla sera, per riflettere, preparare conferenze, correggere manoscritti scientifici o – non di rado – per rispondere a domande urgenti».
Qual è la fatica più grande nella responsabilità che hai?
«Nel quotidiano fardello da portare, mi capita di avvertire un senso di inadeguatezza nel non riuscire a trovare il tempo che vorrei per tutti e tutto. Mi crea rammarico il fatto di non poter essere a disposizione dei pazienti come quando ero giovane assistente. Allora tutto l’impegno era nell’essere medico di corsia; adesso il tempo va diviso con gli studenti, con il laboratorio, con l’amministrazione e quindi la mia presenza fisica tra i pazienti si è ridotta. Mi pesa il fatto di non essere disponibile come vorrei. Ho scelto di fare il medico per mettermi al servizio del prossimo e di tanto in tanto mi domando se non ho tradito questa vocazione».
Guardando agli scenari futuri: una sfida e una speranza.
«Per la società in generale, l’impegno deve tendere alla salvaguardia della coesione sociale. Dobbiamo evitare che l’informazione e il dialogo avvengano nella bolla di chi la pensa allo stesso modo, con l’esclusione di chi è d’altro parere. La speranza, che diventa anche augurio, è che ciascuno di noi – con la propria identità e senso di appartenenza – riesca a mantenere la capacità e la curiosità di incontrare l’altro, il diverso, lo straniero come momento di apertura e occasione di confronto che allarga gli orizzonti».
Stelle sul tuo cammino… «Mia mamma Sylva e mio padre Franco con la scuola di vita che ho avuto in famiglia; mia moglie Bettina con i nostri figli Letizia, Giorgia, Martino e Pietro; infine l’esperienza scoutistica».
Un sogno nel cassetto?
«Credo che questo cassetto non ce l’ho e se ce l’ho è comunque vuoto. In tedesco c’è un’espressione molto calzante: “wunschlos glücklich” (“felice, senza desideri”). Sto bene nella mia pelle e sono grato per la storia di vita che ho avuto finora, con la mia famiglia, la fortuna di avere ancora la mamma, un lavoro gratificante, amicizie solide. Una curiosità irrealizzabile è quella di poter abbracciare con uno sguardo la storia dell’umanità, passata e futura».