di Giuseppe Zois
Il papà era fabbro. Anni duri, di ristrettezze. La mamma prendeva i vestiti che portava un coetaneo di Fernando, li rivoltava e li adattava alla sua misura. Solo le figlie e i figli di famiglie facoltose potevano recarsi a Lugano per continuare gli studi. «Sono cresciuto proprio in quei tempi grami. Non ho vergogna a dirlo».
Scontato seguire la strada dei più e quindi sobbarcarsi in fretta un mestiere. Si cominciava presto l’allenamento con la fatica. Fernando si ritrovò in uno dei grandi delta d’approdo che erano le Poste o la ferrovia. Ptt o Ffs. Divisa d’ordinanza e via ogni mattina verso Lugano a distribuire giornali, lettere e cartoline: fu lì che incominciò a sbocciare il futuro del poeta con tutto quello che sarebbe poi fiorito. Cioè una lunga, splendida primavera, ricca di colori e luci interminabili che continuano con passione giovanile anche nel crepuscolo.
Dopo gli anni a consegnare corrispondenza cartacea, che allora era abbondante – principale mezzo di comunicazione – iniziò un’altra bella stagione professionale nella ditta di un impresario coetaneo che lo volle al suo fianco nei contatti con le maestranze e nell’amministrazione. Nei ritagli dalle pratiche d’ufficio, prendeva carta e penna e scriveva, scriveva…
Poi, finalmente, l’approdo sognato: Sergio Maspoli, che aveva fiuto nello scoprire talenti, lo volle nel cast del Teatro Popolare alla Radio, dove la creatività ebbe modo di rifulgere, con l’inventiva di decine e decine di commedie dialettali e, accanto, poesie su poesie.
Fernando Grignola oggi è sulla soglia dei novant’anni e conserva ancora una sorprendente carica di freschezza creativa, alimentata da una vitalità che ignora l’anagrafe. Lo dimostra l’estro che gli fa battere forte il cuore e volare la mente, rigenerando ogni giorno parole che diventano rime o racconti di quotidianità. Il tempo passa, ma lo stupore, la capacità di sorprendersi di fronte all’inedito di ogni alba e tramonto non si attenuano. La sua è una vita da raccontare: uomo, poeta, scrittore di commedie dialettali, sempre affascinato dal nuovo con salde radici nell’esperienza, che alimenta una memoria attiva e sempre arricchita anche nel confronto con la cronaca d’oggi. Con la sua parola ha affrescato un’epoca di passaggio dalla civiltà contadina alle conquiste della modernità, ne ha fissato volti e momenti. E le sue conversazioni, cariche di amabilità e di riferimenti alle persone e alle vicende del suo territorio – il Malcantone, che non ha però confini limitativi – costituiscono un libro aperto con la continua aggiunta di pagine e di percorsi da scoprire. Ed è bello immergersi nella rivisitazione con la sua calda e rasserenante compagnia. A dispetto o in barba alla negatività di molta attualità, Fernando, interpreta l’ostinazione della speranza.
Il senso di condivisione che prova e trasmette già con la prima stretta di mano, poi con lo sguardo e con la cordialità dei modi, nasce nel contatto con la gente semplice, con il mondo operaio… È questo il clima che gli dà l’ispirazione, è questo l’habitat di «Uomini e colline», uscito nel 1974 e ripubblicato nel 2021: prima gli uomini è l’ininterrotto filo conduttore.
Le poesie di Pino Bernasconi su un pacchetto di Turmac
Un postino che si sente portato alla poesia è già una bella notizia… Come e quando nacque questa passione?
«Frequentavo le Maggiori. Ad Agno c’era la famosa maestra Maria Boschetti Alberti. Fu lei che mi incoraggiò a oltranza: “Scrivi, scrivi, Fernando”. Fu così che già a 16 anni inviavo poesie al Corriere del Ticino e al Giornale del Popolo. Quelle prime composizioni erano in italiano, poi coltivai il dialetto. La prima raccoltina la misi assieme nel 1963: “Solo la voce”, con copertina di Nag Arnoldi. La folgorazione con il dialetto ci fu con un concorso a premi del “Cantonetto”, grazie al quale entrai in contatto con Sergio Maspoli e con l’avvocato Pino Bernasconi, che considero un mio maestro, anche per la stringatezza che mi insegnò. Un editore locale, Elmo Bernasconi, nel 1965 mi tenne a battesimo con il dialetto, pubblicandomi “Ur fiadaa dra mè gént”. Già qui emerge nitido il legame con il mio Malcantone, il lago, le sagre, la convivialità. È stata una fortuna per me conoscere Pino Bernasconi, con il quale nacquero amicizia e familiarità, e Biagio Marin, incontrato a Trieste».
Un apripista geniale, Pino Bernasconi, amico di grandi nomi italiani della poesia, da Ungaretti a Quasimodo…
«Aveva lo studio in Ca’ Brenna, a Lugano. Gli portavo le mie poesie che erano sempre troppo lunghe. Lui, sigaretta Turmac in una mano e matita nell’altra, spesso giù a un tavolo del bar Argentino, mi tirava su una riga e con due parole ricavava una sintesi che gli invidiavo. A volte mi leggeva poesie che scriveva sul retro di quelle scatole bianche di sigarette. Me le leggeva declamandole e poi me le spiegava. Un vero maestro di essenzialità».
Non è facile scrivere in due registri, in lingua italiana e in dialetto…
«Confesso che rimasi sorpreso quando nel 1985 mi fu attribuito un premio della Fondazione Schiller per “La Mamm Granda da tucc”. Era già una novità che un libro di poesie in dialetto suscitasse attenzione. Poi, nel 1998, rimasi emozionatissimo nel ricevere il premio Schiller per la letteratura della Svizzera italiana, conferito al Canzoniere 1957-1997, “Radìsa innamùrada”».
In oltre 70 anni, quante poesie hai composto?
«È un conteggio impossibile. Sono centinaia e centinaia. Non ricordo neppure tutti i titoli delle raccolte date alla stampa. Esordii nel 1963 con “Solo la voce”, poi “La vicenda del vivere” nel 1967 e avanti con una certa regolarità da calendario, con una costellazione di nomi di primo piano nel firmamento dei poeti: Biagio Marin, Franco Loi, Grytzko Mascioni, Ottavio Lurati… Devo tanto a molta gente».
Con Sergio Maspoli l’approdo nel teatro dialettale. Come fu l’approdo in Radio?
«Collaboravo già da tempo con Sergio Maspoli, che conosceva la mia scrittura. Prendeva e usava i miei testi integralmente. Ho dovuto imparare a scrivere in funzione del pubblico radiofonico, che sente solo le voci e nel quale devi accendere l’immaginazione, mentre quello televisivo o in platea vede gli attori, ne segue le mosse. Ci sono accorgimenti specifici per i copioni radiofonici, l’ascoltatore deve capire chi arriva sulla scena, chi esce, con i rispettivi nomi e ruoli: “Ciao Pépin, ciao Milieta…”, precisando cosa fanno in quel momento. Ho scritto più di 200 Domeniche popolari, senza contare testi di commedie preparate appositamente per compagnie teatrali».
Qual è il tuo repertorio preferito? Che cosa ti ispira o da che cosa ami farti trasportare?
«Rimango colpito innanzi tutto dall’uomo con tutta la vastità del suo sentire, mi ritrovo puntualmente affascinato dalle meraviglie della natura con il prodigio conosciuto e sempre inedito delle stagioni, con fiori, piante, prati, pascoli, boschi, colline e animali. È un infinito che si spalanca davanti agli occhi e va dritto al cuore. Già aprire gli occhi al mattino, osservare l’alba, lo spuntare del sole, questo miracolo incantevole…».
Quali sono i sentimenti prevalenti che si intrecciano nelle tue composizioni?
«Certamente la solidarietà e la compartecipazione per il mondo operaio, che ho conosciuto dal di dentro. Prima di essere assunto in Posta, mio padre mi mandò a lavorare in una piccola fabbrica di pipe. Lavoravo per ore a un tornio su blocchetti di radica da perforare. C’erano gli aspiratori, ma la polvere che si respirava e che rimaneva addosso, nei capelli, è inimmaginabile. E intanto la maestra Maria Boschetti Alberti e il prof. di scuola maggiore, Giorgio Macchi, continuavano a premere su mio padre perché mi facesse studiare. Non rimpiango niente: tutto serve nella vita. Adagio, adagio mi sono fatto».
Poeti che hai nel cuore?
«Pino Bernasconi, Biagio Marin e Cesare Pavese».
In una mano la nostalgia e nell’altra la speranza, quale scegli e perché?
«Scelgo la speranza, anche se consapevole dell’età con i suoi acciacchi, che per me sono pesanti. Non serve a nulla rivangare il passato. Tocca a ciascuno di noi guardare avanti, seminare e coltivare il bene. Certo, la nostalgia bussa spesso alla porta, creando struggimento per mia moglie Erica che è mancata dopo 66 anni di vita insieme».
Che cosa ti manca del tempo passato e che cosa desideri dal futuro?
«Ho avuto una vita piena, anche di soddisfazioni, di successo, di riconoscimenti. In Radio sono partito dal niente e sono diventato un produttore del teatro dialettale, insieme con Ketty Fusco, Sergio Maspoli, Alberto Canetta. Chiedo solo un po’ di serenità, ho la mia fede sicura, ogni giorno faccio una sosta in chiesa per una preghiera, accompagnata dall’accensione di una candela nel ricordo di Erica. Trovo conforto lì, davanti alla statua della Madonna, nel silenzio e con i grandi squarci che apre la fede, nella quale si placano anche le mie ansie e le mie lacrime».
Fernando Grignola è nato ad Agno il 26 agosto 1932. Ha lavorato nelle Ptt, poi ha svolto funzioni amministrative in un’impresa, quindi è approdato alla Rsi, ai programmi Teatro Popolare e Dialetto della nostra Radiotelevisione. È autore di numerose raccolte di poesie in italiano e in dialetto e di oltre duecento commedie dialettali. Figura in diverse antologie di poesia. Tra i parecchi riconoscimenti avuti, da segnalare il Premio Schiller 1998.