di Giuseppe Zois
Per tutti era familiarmente «don Mino». A dire il vero, il vezzeggiativo non è che gli si confacesse appieno: era noto per essere un carattere volitivo (sfumatura che sta per «forte»), e le centinaia di allievi che l’hanno conosciuto al Collegio Papio di Ascona nelle varie stagioni – ben 38 anni – da docente, vicerettore e poi storico direttore, lo sanno bene. Voce tonante, emotivo e focoso al tempo stesso, diretto e franco nei modi e nelle comunicazioni. Ma anche capace di commuoversi, superare le incomprensioni che punteggiano la vita di ognuno, riconoscere uno sbaglio e rammendare eventuali strappi.
Con la nomina a vescovo della Diocesi di San Lorenzo a Lugano nel 2003, l’ufficialità ha voluto il suo pedaggio di firma e il nome sui documenti è diventato Pier Giacomo. Nella quotidianità è rimasto il don Mino di sempre, con il bagaglio di caratteristiche umane che aveva in dote. Passando dalle cattedre del Papio a quella più alta di guida della Diocesi, ha scelto come suo motto episcopale «Patiens in adversis», cioè «paziente nelle avversità», frase pescata da un affresco della chiesa del «suo» collegio. Nella lunga intervista finalizzata a un parziale tentativo di ricapitolazione del suo percorso di uomo, prete e vescovo, gli abbiamo chiesto se non si fosse fatto qualche generosa concessione nella scelta programmatica… Sagace e diplomatica la risposta: «È evidente che l’ho adottata come traguardo da conquistare».
Di sicuro don Mino è il meno pretesco nello stile anche tra i numerosi suoi confratelli «mitrati» che abbiamo incontrato: non indulge alle perifrasi, dice pane al pane, e da quando è diventato vescovo, avvolge il tutto in una calda umanità che gli vale meritata benevolenza. È preparato, aggiornato, più pastorale che ministeriale, sostenitore e interprete coerente del Concilio Vaticano II, con Paolo VI come suo papa di riferimento. Possiede saldezza di linea, sa cogliere i segni dei tempi, è pronto al dialogo e al confronto, rispettoso del diverso parere e delle dissonanze, molto aperto anche su tematiche sensibili, talora scottanti della modernità: ad esempio sulla morale sessuale, la confessione, i separati e divorziati, le biotecnologie...
Saldezza del credere e serenità del vivere
C’è chi intravede Dio nell’inquietudine dell’umanità sofferente, chi nella dolcezza di un abbraccio di comprensione e di aiuto. Non ha l’impressione che oggi la gente si aspetti dai pastori la pienezza del cuore più che lo scatto di una fede teologica?
«Premesso che le due dimensioni dell’inquietudine e dell’abbraccio non si elidono l’un l’altra, è indubbio che la situazione di pandemia, l’insicurezza dei tempi in cui viviamo, fanno sentire il loro peso. L’insegnamento ripetuto e insistito di Papa Francesco sulla misericordia e la tenerezza dell’amore di Dio invita a mostrare la pienezza del cuore che è ascolto, accoglienza, apertura, condivisione, presenza, cammino assieme. È questo che oggi innanzitutto la gente si aspetta da noi. Se questa esperienza dell’abbraccio e della tenerezza si accompagna però all’approfondimento teologico della fede, ne guadagnano la solidità del nostro credere e la serenità del nostro vivere».
Come si fa ad andare incontro e aiutare chi è alla ricerca di un percorso spirituale, fuori da formule e moralismi?
«Incontrandolo sul suo cammino, avendo un atteggiamento di presenza, dunque di uscita, accoglienza delle domande, ascolto degli interrogativi, delle ricerche e delle attese dei nostri compagni di viaggio. C’è un’icona che mi pare emblematica, quella del pellegrino misterioso, che la sera della prima Pasqua si affianca ai due discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35), ascolta i loro discorsi, accoglie e fa suoi i loro dubbi, condivide la loro ricerca di verità e risponde fino a spartire con loro il pane della cena. “Resta con noi, Signore, perché si fa sera”. Il dono di restare, ascoltare, rispondere, condividere».
Questo sconvolgimento del Covid ha dimostrato al mondo che c’è una sola grande dominatrice ed è l’universale sensazione di fragilità. Come ci ritroveremo alla fine: più uniti o più soli?
«Occorre riconoscere che se davvero si è trattato di una acquisita scoperta di fragilità, è da considerare quanto mai importante, preziosa e salutare. Questo uomo contemporaneo sempre più presuntuoso, orgoglioso del suo essere e delle sue scoperte, del suo progresso e dei suoi sogni avveniristici, ha bisogno di riscoprire la dimensione della sua fragilità, senza che porti, come sta avvenendo, molti al suicidio. Alla fine ci ritroveremo più uniti o più soli a dipendenza del modo con cui abbiamo colta, accettata, elaborata e condivisa la nostra dimensione di fragilità».
Un evento che ispira storia, poesia, musica e letteratura
Natale ci riporta al mistero di un Dio che si fa bambino e di un ponte che unisce cielo e terra. A Betlemme continua o ricomincia qualcosa?
«A Betlemme quell’evento è continuazione di un disegno che è Mistero. In noi devono ricominciare sempre la scoperta e il rispetto, la libera comprensione»
Per non turbare la sensibilità di chi non festeggia il Natale, c’è chi vorrebbe oscurare la ricorrenza. Non è un brutto esempio di rifiuto del dialogo e della diversità?
«Se si opponessero a quello che contraddice il Natale autentico e ne snatura l’immagine (vedi Babbo Natale o Natale con le renne) darei il mio contributo. Ma il Natale autentico, che ispira storia, arte, poesia, musica, letteratura e cultura, non può urtare la sensibilità di nessuno. Per noi poi è civiltà. Mai potrei rinunciarvi: sarebbe come pretendere di rinunciare alla propria lingua, al proprio paese, alla propria tradizione, al proprio vissuto, al proprio essere. Sono cedimenti incomprensibili. Domando rispetto per chi la pensa diversamente, ma la cancellazione delle diversità è cancellazione dell’umanità».
Al di là del significato che la cristianità attribuisce al Natale, perché questa festa continua a coinvolgerci?
«Perché è portatrice di valori che si reggono da sé e sono validi, attuali in sé stessi, di cui il Natale è solo immagine efficace. Annuncio di pace e gioia, perdono e fratellanza, accoglienza dell’altro, del diverso, del migrante, del profugo; coinvolgimento dei poveri e degli emarginati, ispiratore della poesia, della semplicità e della spontaneità, del sentimento di fedeltà e dono, assistenza e vicinanza».
Nel 1223 a Greccio, Francesco d’Assisi realizzò il primo presepe vivente. Qual è il personaggio di questa rappresentazione che più la colpisce?
«Lasciamo da parte Maria, il Bambino e Giuseppe. Per me è “l’étonné” del presepe provenzale. Dice la leggenda che, con i pastori, a vedere il Bambino nato a Betlemme se ne presentò uno a mani vuote. Si mise in ginocchio, in silenzio, davanti alla mangiatoia, contemplando stupito, meravigliato dell’evento. Gli altri, che avevano portato i loro semplici doni, lo rimproveravano duramente. La Madonna lo difese dicendo: “Voi dite che viene davanti alla grotta a mani vuote, invece porta la cosa più bella: la sua meraviglia. Tutto questo vuol dire che l’amore di Dio lo incanta”. Solo lui ha dimostrato di capire il Mistero».
Pier Giacomo Grampa è nato a Busto Arsizio il 29 ottobre 1936. Dopo gli studi al Seminario di Venegono (Varese) e a quello di Lugano, è ordinato prete il 6 dicembre 1959. Per 38 anni è stato figura di riferimento al Collegio Papio di Ascona, rettore per 24 anni, regista dell’ampliamento e ammodernamento dell’istituto fondato da San Carlo Borromeo. Il 18 dicembre 2003 è nominato vescovo della Diocesi di Lugano. In questa veste ha compiuto la Visita pastorale nelle 255 parrocchie. Tra le sue opere principali: il restauro della Cattedrale e del Palazzo vescovile e del monastero San Giuseppe a Lugano.
Foto 1: primo piano
Foto 2: nell'ottobre 2002 al Collegio papio di Ascona con l'allora consigliere federale Moritz Leuenberger
Foto3: all'inaugurazione dei campi da calcio dell'Istituto Elvetico di Lugano nel 2013
Foto 4: il 1° di agosto 2012 sul San Gottardo