La «rossa di via Gerso», come viene chiamata nel quartiere, fa spicco: per la folta capigliatura color rame, per l’abbigliamento, pantaloni alla turca, scialli di tessuti fluidi che sembrano ali, o cappotti di pelo sintetico riscattato dai colori vivaci. Tinte e fogge di uno stile che esige disinvoltura, inimitabile prerogativa dell’attrice. Anzi dell’artista, per usare un termine più ampio, che meglio definisce un talento multiforme e, in pari tempo, una scelta di vita.
Vestiario a parte, Tatiana ha saputo cogliere le opportunità di un momento storico dirompente, quel ’68 che aprì nuovi orizzonti. Del resto, già in famiglia, Tatiana aveva respirato aria di libertà. Il padre, di origini russe, medico in Appenzello esperto in terapie naturali, componeva musica e la madre coltivava la passione per l’arte. Come dire, la vena creativa era scritta nel Dna. Ciò che riapre l’interrogativo: artisti si nasce o si diventa? Ora, di un bene ereditato si può fare un uso sconsiderato all’insegna della libertà. La giovane Tatiana non è caduta nella trappola dell’avventura fine a se stessa. Si è resa conto che il talento va coltivato con impegno mirato e ragionevole ambizione. In Italia, raggiunta in autostop e sistemandosi in abitazioni precarie – a Milano in una casa di ringhiera e poi a Roma in una cantina – percepisce le sollecitazioni di una stagione in piena evoluzione. La televisione agli esordi, la rinascita della commedia all’italiana, la pubblicità. È il momento giusto per mettersi alla prova. Ma il mondo dello spettacolo, fabbrica di sogni, è un luogo di lavoro faticoso e rischioso, dove ci si confronta con l’incognita del successo.
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