«Grazie per avermi proposto questa chiacchierata. È stata liberatoria, ho potuto aprirmi, raccontare la mia vita, anche le vicende poco piacevoli e le difficoltà. Mi sono sentita più a mio agio rispetto a Tesserete, dove tutta quella gente mi ha messo soggezione; ero emozionata, nervosa, avevo tante idee ma le parole faticavano a uscire». Il riferimento capriaschese riguarda un pomeriggio di fine gennaio, quando l’Associazione Pom Rossin ha organizzato «Il gioco impossibile», tavola rotonda sulla migrazione subsahariana con interventi di Filippo Colombo (reporter e autore del libro che ha dato il titolo all’evento), Soumaila Diawara (scrittore e interprete, sopravvissuto al viaggio dal Mali all’Italia) e, appunto, Amy Gueyé (ex professionista di karate che ha raccontato il suo percorso dal Senegal al Ticino).
Non è possibile andare a scuola
La testimonianza di Amy era dunque rimasta un po’ in superficie, e quando l’abbiamo contattata per approfondire ha risposto con uno squillante «volentieri!», anche se rivangare certi ricordi fa male. Ci accoglie sorridente sull’uscio di casa ma – sapendo come andranno le cose – in mano tiene un fazzoletto per asciugarsi le lacrime che scenderanno.
«Sono nata nel 1987 nel villaggio di Saloum. Ho cinque fratelli e sorelle, mentre mio padre ha complessivamente avuto venti figli da tre mogli». Le difficoltà, per la piccola Amy, non derivano principalmente dalla povertà bensì dalla mancanza d’istruzione. «Volevo andare a scuola, tuttavia la mia famiglia è all’antica e me l’ha impedito. Mio nonno era il capo del villaggio e insegnava il Corano; le donne non devono frequentare le aule, bensì stare a casa e occuparsi del focolare. Poco dopo la mia nascita, mia madre ha divorziato ed è andata nella capitale Dakar. Io sono rimasta con i nonni, che erano duri e non mi hanno dato amore. Durante l’infanzia ho sofferto parecchio».
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